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Rebecca tentennò qualche secondo, poi pigiò il piccolo dito rosa su una delle luci lampeggianti e una sezione intera del muro scivolò sull’altra, scomparendo. Dietro quella porta nascosta c’erano diversi uomini vestiti di bianco e blu, ma solo uno di loro indossava un lungo camice che era più bianco che blu.

«Che diavolo stavi facendo? Non hai sentito suonare alla porta?»

Gli occhi di Rebecca restarono per diversi secondi spalancati, contemplando il viso di quella persona, che le risultava contemporaneamente familiare eppure estraneo. Come uno di quei lontani zii che vedeva solo a Natale o a Pasqua, dei quali ricordava a malapena l’esistenza. Quell’uomo aveva un volto scarno, una pelle pallida e degli occhi vividi, la faccia stanca di chi non vorrebbe essere lì e contemporaneamente l’espressione seccata di chi deve farlo. Capelli neri, stempiatura ampia, baffetti scuri, occhiaie evidenti. Rebecca lo fissò mentre l’uomo col camice si inginocchiò di fronte a lei ed iniziò ad esaminarla attentamente, illuminandola con una sorta di penna laser.

«C’è ancora bisogno di noi, dottor Bachman?» Domandò uno degli altri uomini, quelli grossi e tutti blu, che sembravano brandire sbarre di ferro.

«No… no… voi potete andare. Deve essersi trattato di un’amnesia. Un effetto collaterale della connessione prolungata all’amplificatore neurale.»

Erano parole che Rebecca non comprendeva, e la situazione cominciava a darle fastidio. Le pizzicava dietro la nuca, una sensazione che presagiva sempre qualcosa di brutto. Ma l’uomo con il camice bianco le afferrò la mano e con voce pacata le disse:

«Rebecca, non ti ricordi di me? Sono William. Noi… siamo amici.»


«Non mi ricordo di te.» ➤ 035

«La tua faccia mi è familiare.» ➤ 077

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