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La prima parte di questo racconto è qui. 


II.

Non appena suonò la campanella di fine scuola schizzai via dall’aula lasciando la maestra basita per la velocità con la quale correvo via. Per tutta la giornata ero stato taciturno e poco attento, distratto in continuazione della strana scoperta del giorno precedente. Avevo dormito poco, nonostante i miei genitori avessero ribadito continuamente che si trattava di una sciocchezza, che immaginarmi le avventure spaziali di Capitan Patrizio aveva sovreccitato la mia fantasia, che dovevo smetterla di leggere fumetti e giocare coi videogiochi.

«Ehi, Patrizio.» La voce di Carlo mi intercettò non corridoio. Il suo zaino dei Digimon, dai colori vivaci, catturò il mio sguardo mentre si avvicinava. Il mio zaino era grigio e senza disegni scemi, i miei genitori ripetevano che gli zaini brandizzati non erano di qualità. Il mio era di qualità. Triste, grigio, ma di qualità.

«Bello il tuo zaino.» Gli dissi. Carlo annuì.

«Grazie. Stai andando a casa?» Fu il mio turno di annuire. Io e Carlo avevamo fatto l’asilo insieme, ma alle elementari ci avevano messo in sezioni diverse. Ci incontravamo nel corridoio durante la ricreazione oppure all’entrata (o all’uscita, appunto) della scuola.

«Stai male? Hai il raffreddore? Vuoi un fazzoletto?» Sparò tre le domande in un’unica raffica, probabilmente aveva notato che ero pallido e sudaticcio.

«Ho dormito poco, ho avuto incubi.» Mi giustificai.

«Che incubi?»

«Mostri.» Rimasi sul generico, mentre ci incamminavamo verso l’uscita. Decine di altri alunni ci passavano a fianco, affrettandosi ad uscire e a tornare a casa il prima possibile, ma io non avevo fretta di tornare a casa. Tutto il contrario, piuttosto.

«Ascolta, devo dirti un segreto.» Sussurrai. Carlo annuì, più vigorosamente del solito.

«Dimmelo.»

«È una cosa che ho visto ieri. Una cosa spaventosa.» Premisi.

«Quel film su Telepalmetta? Quello con il mostro delle sabbie? È per quello che hai avuto gli incubi e non hai dormito?» Altra raffica di domande, Carlo si scostò il ciuffo biondo con un gesto veloce della mano. Non sapevo bene a quale domanda avrei dovuto rispondere, quindi lasciai perdere e lo presi per un braccio.

«Dove andiamo?»

«Un attimo, in bagno.»

«In bagno?»

«Sì, non ci viene nessuno adesso che è suonata l’uscita. Sono un momento, ti devo raccontare questa cosa.» Gli dissi, mentre ci dirigevamo verso i bagni di quel piano. I bagno della scuola erano vecchi e puzzavano di vecchio, per la precisione di vecchio riverniciato di scadente vernice verde pallido. C’erano delle mattonelle scarabocchiate che coprivano gran parte delle mura, le scritte più frequenti erano “W ROMA” o “W LAZIO”. E poi i nomi di tantissimi alunni. Ma oltre il metro e mezzo di altezza era difficile trovare scritte. Erano i bagni di una scuola elementare, dopotutto.

«Non c’è nessuno.» Dissi, appena entrammo.

«Allora, cosa devi raccontarmi?» Mi incalzò Carlo, liberandosi dalla mia presa e sistemandosi la maglietta. Lo zaino dei Digimon ballonzolò sulla sua schiena mentre si sistemava. Attesi che si rimettesse in sesto. Non so perché. Forse perché non avevo fretta di raccontargli quello che avevo visto.

«Ieri stavo giocando con l’astronave di Capitan Patrizio… – Cominciai. – Sono andato in salotto mentre la signora delle pulizie era ancora lì, che spolverava i mobili. O forse stava rassettando i cuscini delle poltrone… boh non ci ho fatto caso. Comunque era lì, in salotto.»

Carlo fece su e giù con la testa, mantenendo gli occhi fissi su di me. La curiosità l’aveva rapito. Voleva davvero sapere cosa avessi visto di così sconvolgente. Quindi continuai:

«Cavolo non ci crederai… un mostro in miniatura è uscito dalla bocca della signora Gelsomina! Ho visto il suo braccio secco e nero che si protendeva fuori dalla bocca, l’ho visto afferrare un groviglio di capelli e mangiarlo!»

«La signora Gelsomina si è mangiata un groviglio di cap…»

«NO! Non la signora Gelsomina! Il mostro nella sua bocca!»

«La signora Gelsomina si è mangiata un mostro?»

«Sei scemo??? – Gli gridai. – Non se l’è mangiato, viveva lì, nella sua bocca.»

«Che ne sai, se ci viveva? – Mi domandò Carlo. – L’hai visto sedersi nella sua bocca, dormire, cucinare… giocare con i videogiochi… nella bocca della signora?»

Lì per lì mi sembrò una domanda sciocca, quindi feci un giro su me stesso allargando le gambe e sollevando gli occhi al cielo.

«Lo sapevo! Lo sapevo che non mi avresti creduto!» Urlai. Ma non ero veramente disperato. Volevo solo dare quel’impressione a Carlo, che però non ci cadde nemmeno per un secondo.

«Senti, c’è mia madre che mi sta aspettando. Forse dopo vedo Gianluca e Chiara ai giardinetti. Se ti va, vieni anche tu. Giochiamo a Capitan Patrizio insieme.»

Detto questo, Carlo corse via dai bagni. Sentii lo scalpiccio delle sue scarpe allontanarsi sempre di più sul pavimento della scuola ormai deserta. In un giorno qualsiasi avrei davvero sperato che mi invitasse a giocare a Capitan Patrizio assieme a lui, a Gianluca e a Chiara. Ma non quel giorno. Quel giorno avrei preferito che mi avesse creduto sulla parola, che avesse gridato di terrore e che fosse scappato a chiamare l’esercito per bombardare casa della signora Gelsomina prima che i suoi mostri potessero invadere la terra venendo ad abitarci dentro le bocche. Che schifo.

Mi avvicinai ad una lavandino, aprii il rubinetto, mi chinai e bevvi l’acqua direttamente dal beccuccio. C’erano due manopole ma dai rubinetto dei bagni della scuola sgorgava solo acqua fredda, l’acqua calda non c’era mai stata. Però l’acqua fresca era davvero fresca. Bevvi e mi risollevai in piedi. Lo specchio sul muro era quasi tutto scarabocchiato e coperto di adesivi e figurine appiccicate e poi strappate e poi appiccicate di nuovo. Mi fermai ad osservare le facce dei calciatori Panini di diversi anni fa, mezze sbiadite, mentre con la manica mi asciugavo l’acqua dal mento.

«AHHH.» Feci, spalancando la bocca. Da dietro alla mia lingua, un mostriciattolo nero mi fece “ciao” con la sua piccola manina ossuta.

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american tank

Certe cose vanno ingoiate senza farsi troppe domande...