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Federico sgattaiolò giù dalle scale e scivolò rapido sotto il basso tavolino di fronte al divano, dove sostavano i soliti quattro telecomandi impolverati. Nel frattempo Raffo assestò un manrovescio poderoso sul volto smagrito di sua madre, facendole perdere l’equilibrio. Patricia cadde in direzione del frigorifero, vi cozzò con la spalla nuda e ossuta. Di lì a pochi minuti, su quella spalla sarebbe apparso un vistoso ematoma. Non riuscì comunque a mantenersi in equilibrio, scivolò sui calzettoni di lana (che avevano ben poca presa sul pavimento lastricato in cotto) e si schiantò a terra con un gemito. Raffò avanzò torreggiando su di lei:

«Non lo vedo? È il “maschio” che è sotto attacco! Ogni propensione verso il virile viene sminuita, ogni atteggiamento paterno svilito, ogni parola che contenga un minimo accenno all’uomo e alle virtù maschili viene cancellata, sovvertita, annacquata, inquinata!»

Federico ne approfittò per spingersi con i piedi fin quasi sotto il divano, verso la poltrona in pelle che dava le spalle alla porta-finestra. Attraverso il riflesso sul vetro della porta-finestra scorse il volto di sua madre che rivolgeva lo sguardo alle scale dalle quali era sceso poco prima.

«Federico! Per favore resta in camera… e chiudi la porta!» Gli gridò, prima che il fiato le venisse mozzato da un calcio in pancia.

«Che cazzo fai? Digli di scendere, piuttosto! Magari impara qualcosa, quel frocio.»

Raffo allargò le gambe e si spinse fin sopra il corpo esile di Patricia, che si rigirava sul pavimento cercando di trattenere l’impulso a vomitare. Se l’avesse fatto, poi sarebbe stata costretta persino a pulirlo. E non era facile rimuovere le macchie di vomito dal cotto. Federico avrebbe voluto avere in mano un fucile protonico, oppure una spada laser. Avrebbe voluto far saltare il cervello a quello stronzo, aprirgli un buco sulla pancia, staccagli le braccia. Invece era costretto a premersi entrambe le mani sulla bocca, tentando di non fiatare, gemere o singhiozzare. Lacrime enormi, gonfie come gocce di pioggia, scivolavano lente sulle suo gote arrossate. Occhi rabbiosi erano dipinti sul suo volto rotondo, aveva sei anni e non comprendeva appieno la dinamica di quello che stava succedendo. Raffaele o Raffo, piovuto dal cielo o da chissà dove, dormiva nel letto di sua madre Patricia da tre mesi o forse più, preparando la colazione a entrambi, ogni mattina. The e biscotti, latte e caffè. Poi accompagnava Federico a scuola. Poi andava a lavorare. Faceva “il militare”, un mestiere indefinito per Federico, che lo intendeva come una sorta di soldato che però non andava in guerra, e quindi faceva le guerra ogni giorno nel quotidiano, come quella mattina. Domenica. Il weekend era il periodo più insidioso, perché nessuno dei suoi genitori andava a lavorare, tutti erano in casa, quindi era più facile per Raffo sfogare la sua rabbia su Patricia. Sembrava che detestasse averla tra i piedi. Eppure la mamma aveva detto che era innamorata di Raffo. Innamorata di cosa? Del suo accento del nord? Dei riccioli biondi che sbordavano dalla canotta verde militare di lui, quando non indossava ala camicia e la cravatta? Della tracotanza con la quale asseriva di sapersi prendere cura di tutto e di tutti, salvo ricorrere a idraulici e muratori quando si trattava di lavori in casa, e salvo prendere a ceffoni la madre quando dimenticava di doversene prendere cura? Forse per Raffo “prendersi cura” di Patricia e di Federico significava cercare di imporre loro il suo punto di vista, forcaiolo, violento, diretto, forte, raramente davvero risolutivo. Un vecchietto coglieva un fiore dal cespuglio oltre il cancello di casa? Andava massacrato di pugni. Una coppia si raccontava felice? Ipocriti del cazzo. Un paese costringeva le donne a indossare un mantello? Bisognava bombardarlo e cambiare le leggi. Ogni famiglia avrebbe dovuto avere un bazooka in casa. Ogni uomo doveva guidare un carro armato su quattro ruote e inveire sul costo della benzina, sempre più cara. Ogni padre doveva insegnare l’educazione al figlio, senza risparmiare punizioni fisiche e percosse. Solo così gli uomini sarebbero cresciuti con la schiena dritta. Solo così le donne avrebbero capito qual era il loro posto.

«Frocio, – riprese a dire Raffo, mentre afferrava la prima rivista a portata di mano e la lanciava a terra con disprezzo. – come le cose che legge! Tutti ‘sti fumetti e storie da frocio con i froci protagonisti. Persino nei film hanno sostituito i super-eroi maschi con le controparti femmine. Hulk? No, she-hulk! Iron-man? No, la moglie di Iron-man. Occhio di Falco? No, la figlia. Omosessuale, magari. Che schifo!»

Diede un altro calcio a Patricia, stavolta tra le gambe. Federico sapeva che lo sfogo di Raffo stava per concludersi. Era scaturito da una timida frase di Patricia sul fatto che a lei, la serie Amazon del Signore degli Anelli, non era dispiaciuta. Primo ceffone. Aveva tentato di motivare quell’affermazione e BAM, secondo ceffone. Federico stava scendendo le scale per andare a giocare sul prato nel retro ed era arrivato in salotto giusto in tempo per vedere arrivare il terzo ceffone (un manrovescio, appunto) sulla faccia della madre.

Federico notò la rivista scagliata a terra da Raffo. Un numero di un settimanale di reportage e approfondimenti, una roba che Patricia leggeva spesso, forse era addirittura abbonata. Non si trattava di uno dei fumetti di Federico, quelli che Raffo riteneva “da froci”. Ripensandoci, Federico non ricordava di “froci” nei suoi fumetti. Ricordava invece di un sacco di femmine strizzate in abiti strettissimi, spesso troppo corti, con enormi meloni sul petto e gambe chilometriche. Per quanto riguarda le serie nominate da Raffo, non ne aveva vista nemmeno una, ma erano molto popolari e i suoi compagni di classe ne parlavano spesso con sincero entusiasmo.

«È il maschio che è sotto attacco. La mascolinità, quella che tutti dicono che sia “tossica”. Il bello è che qualsiasi cosa non sia mascolina, non è tossica. Quindi non esiste, per queste femmiste del cazzo, una mascolinità che non sia “tossica”. Esiste solo una mascolinità, ed è quella tossica. E poi ci sono i froci. Quelli no, non sono tossici. Quelli vanno bene, certo!»

Patricia si allottò strisciando da Raffo, mentre l’uomo continuava a sproloquiarle sopra. Raggiunse la base delle scale che conducevano al piano superiore, e da lì scorse Federico. Madre e figlio si guardarono negli occhi per un lungo minuto. Non si dissero nulla, ma si dissero tutto. Patricia si voltò restando con la schiena sul pavimento, sbottonò la camicetta, allargò leggermente le gambe nude sulle quali già erano evidenti le ammaccature nere causate dai colpi ricevuti nei giorni precedenti.

«Vaffanculo, Raffo. Tu non sei un uomo! Sei un frocio!» Gridò, digrignando i denti. Federico capì cosa aveva intenzione di fare. Voleva fornirgli un’occasione, l’occasione di scappare, di aprire la porta-finestra e fuggire senza essere visto da quell’orco. Un orco dalle zanne gialle e ricurve, che sbavava chino su sua madre. Gli occhi erano giallastri, la schiena irsuta, le orecchie accartocciate come foglie di broccolo.

«Non sono un uomo? Non sono un uomo, io???» Tuonò l’orco. La sirena si trascinò indietro facendo forza sulle braccia sottili. La lunga coda squamata da pesce non le era d’aiuto, anzi in quel caso le era d’intralcio, perché non riusciva ad usarla per spingersi ulteriormente verso le scale. Troppo viscida, ricoperta di gelatina trasparente che la pelle della sirena produceva naturalmente per ridurre l’attrito dell’acqua, durante il nuoto. Ma sul pavimento di cotto non aveva alcuna utilità, anzi le rendeva il movimento ancora più difficoltoso. La sirena strisciava a terra gemendo mentre l’orco slacciava dalla cintura di cuoio una grossa frusta con molti nodi lungo il corso.

«Adesso Raffo ti porta in camera e poi ti fa vedere come si comporta un uomo!» Sibilò con voce rauca l’orco, lasciando colare la saliva giallastra sulla pancia nuda della sirena. L’orco si girò verso di lei, dando finalmente le spalle a Federico. Avrebbe potuto scappare, Federico. Avrebbe potuto aprire quella porta-finestra e fuggire nel bosco, circondato da profumo di resina di conifere, vento fresco, steli di erba scossi dalla brezza, terreno soffice, cielo azzurro, fronde alte e maestose. Federico l’avrebbe fatto. Ma Ser Federico, no. Mai. Ecco quindi che Ser Federico scattò verso la rastrelliera delle armi, appoggiata di fianco al forno. Prima che l’orco potesse accorgersi di quella minuscola creatura, afferrò un gladio e lo strinse forte con entrambe le mani, dieci dita. L’orco si voltò, i suoi occhi giallastri lo fissarono con severità.

«E tu che cazzo vuoi?» Ringhiò, serrando le zanne.

Ser Federico non fornì spiegazioni. Non ce n’era bisogno, non era il momento. Affondò il gladio nel ventre scoperto dell’orco, lo estrasse e lo affondò di nuovo. La pancia dell’orco cominciò a spillare sangue bruno, che inumidì rapidamente le vesti verde militare che indossava, puzzolenti. Colpì ancora e ancora finché il gladio non fu interamente coperto di sangue, finché le sue mani non furono entrambe coperte di sangue, finché l’orco non crollò a terra, di fianco alla sirena, privo di vita. La sirena emise un lamento sottile, stridulo, poi svenne. Federico sollevò in alto il gladio. Raffo aveva ragione: la violenza risolve tutto.

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Gnometra

La "disintegrazione" risolve tutto!

american tank

Oggi sono stato perculato dalla mia collega (responsabile sicurezza), poi dal mio "minion" con la solita battuta scemotta e infine da un ragazzo gay che sta imparando il mestiere (nel mio settore la percentuale di non etero è decisamente elevata) quindi come al solito sono stato preso in giro da donne, maschi etero e gay. Ma io sono io e me ne frego, preferisco essere me stesso e dire che vorrei Fosca con il pene piuttosto che fingere di essere altro. (il mio minion tuttavia sabato dovrà saltare il permesso)

american tank

Io e lui siamo comunque d'accordo che Fosca, Talia, Katy, Baba e Newt non dovrebbero avere un pene perché contrario al concetto di personaggio. Per Fosca mi si spezza il cuore, ma condivido il pensiero. Comunque sabato dovrà andare a Trecate (Novara) invece che stare a casa 👹