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Se c’era qualcosa che come un tarlo tormentava e rosicchiava in continuazione il senso di tranquillità di Oswald era l’idea di infinito comparato con la breve esistenza dei gerbilli. Gli scoiattoli volanti, come molti roditori, hanno un metabolismo molto veloce: il loro cuore batte dieci volte più velocemente di quello di un monaco buddista, e la loro vita, di conseguenza, è dieci volte più breve. Ma nemmeno la speranza di vita di un monaco buddista avrebbe tranquillizzato Oswald, che non riusciva a togliersi dalla testa quell’idea assurda del big-bang, l’origine di tutte le cose e l’espandersi dello spaziotempo, idea che includeva l’inizio dello scorrere del tempo, che quindi prima non esisteva, e quindi non c’era un prima. C’era un attimo sospeso in eterno. Ma nemmeno, perché dire “eterno” implica percepire lo scorrere del tempo e pensare a qualcosa che lo attraversa senza subirne gli effetti, ma il tempo non esisteva nemmeno, prima che il big-bang avesse luogo. Oswald quindi se ne stava aggrappato sul suo ramo preferito, coda rivolta verso il cielo, zampe salde e funghi conficcate nella corteccia, a riflettere sull’infinito scorrere del tempo che aveva avuto luogo a partire dalla nascita dell’universo e di tutte le dimensioni. Miliardi di anni fa. 

Dunque, come accadeva di solito, si era soffermato sulla durata della propria esistenza: un nonnulla, un lampo, un momento indescrivibilmente breve. Tre, quattro giri del pianeta attorno al sole o poco più, e poi il suo cuore si sarebbe fermato: niente più sangue al cervello, niente più consapevolezza di se stessi, niente più ragionamenti sullo stato della propria esistenza e sull’assenza della propria coscienza. Oswald si rese conto che sarebbe esistito per un periodo di tempo (oh, sì… proprio quel tempo) brevissimo, mentre il tempo avrebbe continuato a scorrere anche dopo la sua morte, per centinaia, migliaia, milioni, miliardi di anni ancora. Per sempre. Così come aveva fatto prima della sua comparsa nel flusso delle cose. Oswald arricciò il naso umido, guardò in alto, verso il cielo, scosse la coda, allungò una zampa tendendo parzialmente il patagio che si estendeva tra il suo ginocchio e il gomito. Un moscone ronzante gli passò a pochi centimetri dal muso appuntito, tentò di seguirne la traiettoria di volo ma lo perse tra i rami del ciliegio. Nasco, vivo, muoio. Pensò. Conta davvero qualcosa quello che farò nel brevissimo lasso di tempo in cui sono cosciente di me stesso, in cui “esisto” in senso stretto? 

Quel moscone non se ne preoccupava affatto. Probabilmente era in cerca di qualcosa di zuccheroso sul quale vomitare fluidi digestivi per poi riassorbirli e alimentare i muscoli del proprio corpo, i quali gli permettevano di volare, e volare gli permetteva di andare a deporre le proprie uova nella materia organica putrescente più lontana, che marcendo avrebbe scaldato le uova fino alla loro schiusa. Le larve sarebbero divenute mosconi, e i mosconi avrebbero di nuovo speso tutto il loro tempo a mangiare, accoppiarsi e poi deporre altre uova. E così via. Una catena di piccole esistenze che propagano se stesse all’infinito, nel futuro. Inconsapevoli sia di cosa stiano facendo (Oswald dubitava che un moscone avesse mai ragionato sull’argomento) sia del perché dovrebbero farlo. Effettivamente, se non ci si fermava a farsi domande come stava facendo Oswald ormai già da diverso tempo, sembrava proprio che il senso della vita fosse essere vissuta. Una tautologia. Una corsa va corsa, un gioco va giocato, una vita va vissuta. Niente di meno, niente di più. Una verità semplice, un piano che veniva messo in atto da qualsiasi creatura vivente. Il ramo si piegò, Robin si fece avanti e squadrò Oswald con curiosità.

«Di nuovo a rovinarti la vita con quei pensieri contorti, dai quali non riesci ad emergere?»

«Oggi pensavo ai mosconi.» Rispose Oswald, lisciandosi il pelo sulle orecchie.

«I mosconi sanno di merda.» Commentò Robin, grattandosi la pancia.

«Li hai assaggiati?» Chiese Oswald, scattando in avanti.

«Era inverno. Avevo fame. Scorta di semi finita. Addentai una larva.»

Oswald si chiese dove Robin potesse aver trovato una larva in inverno, poi si chiese come sapesse quale fosse il sapore della merda, poi si chiese se una larva di moscone e un moscone potessero avere lo stesso sapore. Poi tornò a se stesso, aggrappato a un ramo di ciliegio.

«Il senso della vita è quello che decidiamo di darle?» Domandò a Robin.

«Proprio come il sapore dei mosconi.» Gli rispose Robin.

Oswald pensò che sarebbe scomparso molto presto: aveva vissuto già tre anni pieni, che per un petauro libero in natura sono tanti. Aveva notato il proprio pelo ingrigirsi, i propri muscoli perdere di tono, l’umore dei propri occhi riempirsi di impurezze, le unghie delle dita farsi sempre più fragili, i denti sempre più gialli. Se fosse morto senza aver dato una risposta alla propria domanda, a chi sarebbe importato? Nemmeno a lui, in fondo. Fine della coscienza, fine di tutti i pensieri, fine di ogni preoccupazione, anche di quelle di cui si faceva carico da solo. Soprattutto di quelle. La sua vita, che avesse o meno la consapevolezza di averla sprecata oppure che si fosse trastullato nell’ingenuità e nell’ignoranza, senza mai porsi alcuna questione e senza cercare alcuna risposta, avrebbe avuto comunque lo stesso valore. Lo stesso valore di quella di un moscone, o di un albero di ciliegie… o di Robin.

«Facciamoci una planata.» Gli propose Robini.

«Volentieri.» Rispose Oswald, convinto di aver investito anche quel giorno la giusta quantità di tempo a ragionare su quello che lo circondava, l’universo, la vita e la morte. Non perché fosse necessario, o importante, o significativo per la sua esistenza o per quella con gli altri, ma solo perché era curioso. Un petauro curioso.

Spalancò le zampine tendendo il patagio e si lanciò giù dal ramo, planando con fierezza verso l’albero di fronte. Robin lo stava seguendo a breve distanza. Entrambi gridavano di gioia mentre sfrecciavano nell’aria odorosa del bosco autunnale.

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Comments

Anonymous

Che bel racconto

Claudio

"zampe salde e funghi conficcate nella corteccia" che c'entrano i funghi?

Bigio

:DDDD niente forse una parola di una frase che ho cancellato e che è rimasta lì, ostinatamente