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Qui la prima parte.


Ted Marsh e Loredana Nkosi stavano facendo sesso nella doccia. L’acqua rimbalzava sulla loro pelle schizzando copiosamente il plexiglass della cabina, quindi scivolava verso il basso in grosse gocce, lasciando dietro di sé lunghe scie trasparenti sulla plastica appannata dai vapori. Strisce.

«Fermati un attimo.»
Chiese Loredana, smettendo di ansimare e scostandosi dal corpo bianchiccio maculato di rosso di Ted.

«Che succede?» Chiese Ted, appoggiandosi al muro del prefabbricato. Nella semplicità del suo pensiero decisamente convenzionale, temeva di aver fatto qualcosa di sbagliato. Forse si era lasciato trasportare un po’ troppo, forse un movimento troppo brusco, forse…

«Credo che una scimmia sia entrata nel laboratorio.» Spiegò Loredana uscendo dalla cabina. Non era impossibile, c’erano tantissime scimmie che schiamazzavano notte e giorno nei dintorni, ma il laboratorio era sigillato per evitare la contaminazione ambientale, e sarebbe stato bizzarro ipotizzare che una scimmia avesse eluso i sistemi anti-intrusione, azzeccando i codici richiesti dalle pulsantiere per ognuna delle due porte. Tuttavia l’intera struttura era, appunto, un prefabbricato, assemblato velocemente qualche mese prima al fine di avere una base e un laboratorio di ricerca sul posto fintanto che fossero stati necessari. Quindi delle scimmie particolarmente testarde e operose avrebbero potuto trovare (se non addirittura praticare) un’apertura nel cartongesso di cui essenzialmente erano composte le mura esterne. E poi chissà cosa fare all’interno.

«Non sto scherzando, – ribadì Loredana, – ho sentito dei rumori strani.»

«Sicura che non fossero…»

«No, non lo erano.» Rispose seccata lei.

«Ok, vado a controllare.» Fece Ted, raggiungendola fuori dalla cabina.

«No, vado io.» Disse la dottoressa, infilandosi i suoi boxer e arraffando la sua maglietta. Di fatto, a Ted restavano gli asciugamani. Oppure le mutandine di lei, che molto quasi certamente non erano della sua misura. Un rumore si vetri rotti e di metallo colpito risuonò fino ai bagni. Loredana cercò lo sguardo di Ted in mezzo al vapore dell’acqua calda che ancora aleggiava nella stanza, solo per rivolgergli un’occhiata del tipo “che ti avevo detto?”. Ma Ted non colse il vago rimprovero. Piuttosto, ora era preoccupato. Strinse un’asciugamano attorno alla pancia e afferrò uno sgabello di plastica.

«Che ci vuoi fare con quello?»

«Difendermi. Le scimmie possono essere pericolose, non voglio che mi morda.»

Loredana si immaginò la scena. La scimmia selvaggia che gli saltava addosso affondando i denti in quella ciccia bianca e flaccida, scottata dal sole sulle spalle e attorno al collo, mentre lui gridando cercava di colpirla con uno sgabello di plastica. Sorrise. Se Ted non fosse stato un irlandese nerd con la mobilità di una foca fuori dall’acqua, la scena sarebbe stata molto meno comica, e forse si sarebbe preoccupata per la sorte della scimmietta. Al momento non aveva motivo di temere che la scimmia potesse farsi male in uno scontro diretto con Ted, anzi forse sarebbe stato lui a uscirne pieno di graffi e di morsi. Loredana invece passava meno tempo davanti alla Playstation e più a mantenersi in forma. Tutte le mattine si alzava all’alba e correva lungo la recinzione finché gli sciami di insetti attratti dal suo sudore non si facevano troppo difficili da seminare. Ma era importante fare dell’esercizio, perché tre mesi ad esaminare campioni in quel laboratorio in mezzo alla foresta avrebbero potuto essere davvero deleteri, per la sua salute fisica. La scimmia, quindi, avrebbe dovuto temere più un suo pugno in faccia che lo sgabello di Ted.

Altro rumore. La luce filtrava attraverso le finestre sigillate da plastica trasparente, fendendo il vapore in lame di luce che si alternavano all’ombra delle sbarre metalliche. Strisce di luce, che zebravano le spalle coperte di lentiggini di Ted.

«Resta qui, vado io.» Disse Loredana. E aprì la porta del bagno.

Il vapore scivolò fuori vorticando nell’aria secca del corridoio. C’erano strane macchie sulle pareti trasparenti del laboratorio, e sul nylon che lo isolava dall’anticamera. Loredana le notò sin dal primo passo nel corridoio.

«Forse è esploso un barattolo con dei campioni.» Disse, prima di richiudere la porta del bagno. Ted attese che la porta si chiudesse, prima di appoggiare lo sgabello a terra e sedercisi. «Che cazzo.» Mormorò. Curvò le spalle e si rese conto che non avendo gli occhiali sul naso né le lenti a contatto sugli occhi, riusciva a vedere a malapena le proprio mani. I polpastrelli erano rugosi. Erano rimasti sotto la doccia troppo tempo, sprecando troppa acqua, una risorsa che non mancava di certo in quel posto, ma che non era il caso comunque di lasciar correre per minuti interi mentre si faceva sesso. Ted si punì con un piccolo buffetto sulla testa, poi riportò indietro i capelli biondicci che gli erano rimasti appiccicati sulla fronte e si alzò, per andare alla ricerca degli occhiali. Quando li trovò, si accorse che erano coperti di vapore. Li ripulì velocemente con l’asciugamano che portava alla cintola, ma in quel modo ottenne solo di ricoprire le lenti di pelucchi arancioni. «Che cazzo.» Mormorò di nuovo. Poi un rumore, schianto di qualcosa sul muro. Forse. Altri rumori. Colluttazione? Loredana stava inseguendo la scimmia entrata nel laboratorio? E se non si fosse trattato di una scimmia? Certo, ma cosa poteva essere? Si domandò Ted mentre inforcava gli occhiali sporchi. Adesso più o meno ci vedeva, anche se non avrebbe voluto farsi vedere da Loredana con gli occhiali, perché gli facevano gli occhi piccoli. In quelle settimane aveva sempre cercato di indossare il più possibile le lenti a contatto, e forse era anche grazie a questo che era riuscito conquistarla. Alle lenti a contatto, e all’isolamento forzato. In un’altra situazione probabilmente una come Loredana non se lo sarebbe filato di striscio, uno come lui. Si guardò allo specchio. Attraverso il vetro ancora appannato riusciva comunque a intravedere il segno che il sole gli aveva lasciato attorno al collo, scottandogli la pelle fin dove poteva. C’era il segno della sua t-shirt, su quel collo. Ed era bastato uscire qualche ora a sistemare la recinzione per scottarsi in quel modo. La pelle color pece di Loredana non sarebbe mai apparsa così ridicola, ai suoi occhi.

Altro rumore. Loredana.

«Ehi? Tutto bene?» Le urlò, voltandosi. Muovendosi verso la porta, raccolse di nuovo lo sgabello. Loredana non gli rispose. Ma non si aspettava davvero che lo facesse. Non sarebbe stato da lei gridarle “tutto beeeeeene” di rimando, attraverso due stanze e un corridoio. Sempre che lo avesse sentito, attraverso le pareti di plastica e i teli che isolavano il laboratorio dal resto della struttura. Avrebbe voluto indossare i suoi boxer, prima di uscire dal bagno, ma non li aveva. E nemmeno la maglietta. Uscì nel corridoio mezzo nudo e con uno sgabello in mano. Comprese perché Loredana aveva sorriso, poco prima.

«Loredana?» Urlò di nuovo. Stavolta era molto probabile che la sua voce avesse attraversato le pareti sottili e che lei l’avesse udito, se fosse stata nel laboratorio. Ma attraverso il nylon il laboratorio sembrava deserto. A parte, forse, per una zona, in fondo, sul lato opposto. Uno dei contenitori cilindrici, vicino alla cappa a ultravioletti. Mancava. Forse era caduto e si era rotto, avrebbe spiegato alcuni dei rumori.

«Lore…?» Stavolta lo bisbigliò appena, mentre a piedi nudi, sul grès verde, si avvicinava alla porta dell’atrio. La pulsantiera era intatta, la porta non mostrava segni di effrazione. Ma d’altro canto, quella porta non era bloccata da un codice di sicurezza, e chiunque avrebbe potuto aprila semplicemente digitando “cancelletto”. Anche una scimmia avrebbe potuto farlo, completamente a caso. Ma Ted non aveva incontrato scimmie nel corridoio, né erano entrate in bagno, e le altre porte, che conducevano alle loro stanze private, erano chiuse. Nessun primate, seppur agendo a caso, avrebbe premuto per sbaglio “cancelletto” su più di una pulsantiera, assicurandosi peraltro appena oltrepassata la porta, di richiuderla alle sue spalle. No. La scimmia, o le scimmie, non erano passate di qui. Digitò “cancelletto” sulla pulsantiera, la serratura si sbloccò con uno scatto ed un sibilo. Ted spinse la porta.

«Loredana, sei qui?» Domandò, ma più che altro parlare serviva a rassicurare se stesso. Oltrepassò la porta sollevando lo sgabello oltre la spalla, come se avesse dovuto colpire qualcuno appostato dietro l’angolo. Ma non c’era nessuno dietro l’angolo. Alla sua destra, l’atrio dell’edificio e in fondo la porta che dava all’esterno. Spalancata. Alla sua sinistra, la porta del laboratorio, o meglio dell’anticamera presso la quale aveva intenzione di dirigersi, perché era dal laboratorio che sembravano provenire i rumori, ed era lì che credeva che Loredana si fosse diretta. Ma ora non ne era più molto sicuro. La porta che dava sull’esterno era aperta, e nessuno dei due l’avrebbe lasciata aperta. Le possibilità erano due: Loredana era uscita e aveva lasciato la porta aperta, cosa improbabile, oppure qualcuno era entrato spalancandola e così era rimasta. Ma una scimmia non avrebbe mai potuto spingere quella porta ed aprirla, c’erano dei meccanismi “accompagna-porta” installati che rendevano arduo, per un piccolo animale, poterla muovere. E poi c’era una maniglia da ruotare, che difficilmente poteva essere azionata in modo accidentale. Quindi la prima ipotesi, ovvero che Loredana fosse uscita, sembrava a Ted molto più sensata. Prima di allontanarsi in direzione della porta d’uscita, comunque, rivolse un’occhiata indagatoria alla porta dell’anticamera del laboratorio. Anche qui, la pulsantiera risultava intatta e funzionante, tuttavia delle macchie scure attirarono l’attenzione del dottore. Si avvicinò. Le macchie erano all’interno, ma gran parte della porta era composta da pannelli di laminato smerigliato, trasparente quando si era in prossimità della superficie, quindi il colore bruno della poltiglia che era stata lanciata contro l’interno della porta risultava visibile anche dall’esterno, dal suo lato.

A una prima occhiata, le macchie sembravano proprio essere quello che sembravano essere: macchie di una poltiglia bruna, color fango ma più rossicce. Ted si chiese cosa potessero essere, o cosa potesse averle causate. Nel contenitore cilindrico che sembrava essere scomparso c’era uno di quei frutti grotteschi a forma di testa, recuperati dal professor Sherman e dalla dottoressa Lawrence nel mezzo degli acquitrini salmastri. Se il contenitore fosse stato spinto a terra e se si fosse infranto, il frutto all’interno avrebbe potuto spiaccicarsi sul pavimento, e la polpa bruna sarebbe potuta schizzare attorno. Ma il tutto sarebbe avvenuto nel laboratorio. Quella era la porta dell’anticamera.

«Che roba è quello schifo?» Si domandò, ad alta voce. Colava lentamente, densa e viscosa, raccogliendosi in grossi grumi. Strisce di un rosso molto cupo sulla superficie trasparente. Qualsiasi cosa fosse, sarebbe toccato a loro pulirla. E prima che il professor Sherman tornasse dalla conferenza a Londra. Ma non era il momento di fermarsi su certi aspetti del suo praticantato post-laurea. Tornò a pensare a Loredana. Si lasciò alle spalle la porta dell’anticamera del laboratorio, e percorse (sempre a piedi nudi sul grès), il lungo atrio fino alla porta che dava all’esterno. Qualche folata di vento aveva già spinto oltre la soglia del fogliame, un po’ di terriccio e parecchia erba secca. Normalmente, Ted si sarebbe affrettato a chiudere la porta per evitare che altro contaminante entrasse, ma in quell’occasione si fermò sulla soglia, con lo sgabello in mano e un solo asciugamano attorno alla cintola a coprirgli il sedere. Un paio di grosse zanzare già pasteggiavano con il suo sangue, forandogli la pelle delle caviglie. Um grosso moscone gli volò vicino all’orecchio destro emettendo un forte ronzio molesto, poi si infilò all’interno della struttura, più fresca e meno afosa rispetto alla foresta lì attorno. Ted non si mosse. Impietrito, fissava quello che all’apparenza sembrava un cadavere annerito che giaceva prono a pochi passi dalla porta, disteso sul terriccio, appena coperto, in alcuni punti, dal fogliame.

«Ma cosa cazzo… – bisbigliò, poi, ad alta voce: – Loredana! Dove cazzo sei?»

Quel corpo non era Loredana. Ne era sicuro. O meglio, cercava di convincere se stesso che quel corpo non poteva proprio essere la dottoressa Nkosi. Era troppo tozzo e massiccio, il corpo della dottoressa era più snello e slanciato. Lo sapeva bene. Ci stava facendo sesso nella doccia, proprio pochi minuti fa. Che cazzo di sviluppo di giornata, eh? Pochi minuti prima, sesso nella doccia. Pochi minuti dopo, un cadavere martoriato davanti alla struttura scientifica provvisoria. Si avvicinò, sempre con lo sgabello sollevato. I piedi nudi iniziarono a calpestare il terriccio morbido oltre la pedana d’ingresso. Le foglie secche scricchiolarono, ma il rumore dello scricchiolio era appena percepibile, nel “chiasso” della foresta. Lo stormire delle fronde, il ronzio degli insetti, le urla distanti delle scimmie, il rumore delle onde contro la scogliera che risaliva da sud-est. Ted si accorse che quel corpo non era privo di vita. Si mosse. Vibrò. Forse un semplice spasmo. Fece un salto rapido indietro, spaventato. L’asciugamano gli calò sulle ginocchia, lui lo raccolse rapidamente e se lo strinse di nuovo attorno alla vita, poi raccolse lo sgabello che aveva momentaneamente appoggiato a terra, e riprese ad avanzare.

Notò qualcos’altro. Delle strisce. Sul terriccio. Parallele, lunghe, come solchi lasciati da un rozzo rastrello, o ancora meglio da un forcone. No, da una mano. Ecco, sembrava che una mano avesse tentato di aggrapparsi al terreno mentre il corpo veniva trascinato via. Le dita, premute contro il terreno, avevano scavato quei segni, quei solchi paralleli e allungati, che terminavano… cos’era quello? Ted si chinò. All’interno di uno dei solchi c’era qualcosa, proprio laddove il solco terminava. Un dito. Nero, gonfio, con un unghia spaccata in più punti al termine dell’ultima falange. Non era nemmeno un dito completo, solo due falangi, era stato mozzato poco dopo la nocca. Forse un indice… no, un medio a giudicare dai segni lasciati sul terreno. Lo raccolse, lo avvicinò agli occhiali, per esaminarlo meglio. Non appena l’ebbe toccato, si rese conto immediatamente che non si trattava di un dito. La superficie rugosa e coriacea sui polpastrelli lo faceva pensare più a qualcosa di vegetale. Un sigaro, uno di quei cubani grossi e cilindrici, fatti di foglie di tabacco secche e arrotolate. Tuttavia, quel sigaro si piegava in almeno un paio di punti, simulando in tutto e per tutto la struttura di un dito medio umano. Persino l’unghia, che era composta di un tessuto vegetale più coriaceo, sembrava essere stata posta proprio in corrispondenza di un unghia umana su un dito umano. Eppure non c’era carne, né sangue, né ossa in quello che Ted continuava a girare e rigirare tra le dita.

Si voltò di scatto, quando uno strascichio pesante gli giunse all’orecchio. Alle sue spalle, il corpo nero si sollevava sudicio e coperto di foglie secche. Composto, di foglie secche. E di radici, di muffa, di muschio, di sterpi e fili d’erba paglierini, di arbusti contorti e viticci. Un torso senza testa si avventò su di lui. Ted tentò di colpirlo con lo sgabello, ma per quanto continuasse a colpirlo, non otteneva alcun risultato. Il corpo nero gli strinse il collo con le dita ruvide e maleodoranti di legno marcio. Ted si lasciò sfuggire un gridolino stridulo, qualcosa che esprimeva terrore, sorpresa e disgusto nel contempo, ma anche pochissima virilità. Pensò che si sarebbe vergognato molto se Loredana fosse stata da qualche parte lì attorno, se l’avesse sentito gridare in quel modo imbarazzante, se avesse pensato di lui che era solo un nerd ciccione e impacciato, incapace di badare a se stesso. Represse ulteriori gridolini imbarazzanti. Nel frattempo le dita di corteccia della creatura di sterpi si infilarono nel suo naso, nella sua bocca spalancata, nelle sue orecchie, nei suoi occhi. Poi il suo collo si torse e la sua testa si svitò. Loredana non aveva visto nulla di tutto ciò, ma Ted ormai non avrebbe più dovuto preoccuparsene.

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Comments

Minderbinder

Maronna Bigio... Mai pensato di scrivere sceneggiature per film horror?

Bigio

No, ma i miei libri sono disponibili se per caso qualcuno volesse opzionarli e farci una serie NETFLIX tipo "Bigio's Horror Night" con me e e Alonso che presentiamo gli episodi, al posto di Zio Tibia e Perone.

Claudio

ti vedrei Bigio più a presentarli nello stile "Blu Notte" di Lucarelli

Anonymous

Vogliamo la serie animata alla "Brividi e Polvere con Pelle e Ossa"