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«Credo di averlo trovato.»

«Lo abbiamo trovato.» La corresse Sherman, raggiungendola. La dottoressa Lawrence si mosse prima che il professore riuscisse a metterle la mano sulla spalla, il solito gesto amichevole con l’intenzione di addolcire un sopruso o una mancanza di rispetto. Ma la spedizione era stata organizzata da lui, beneficiava dei fondi che lui era riuscito a ottenere e aveva il suo nome, quindi era scontato che negli annali la scoperta sarebbe passata a suo nome. Monica Lawrence sarebbe comparsa in fondo agli articoli scientifici del settore, tra i collaboratori, assieme a Ted e Loredana, che però non avevano mosso neanche un passo nella foresta, e che adesso se ne stavano nei laboratori compatti del campo base a godersi l’aria condizionata, mentre lei lottava con le zanzare vagando nelle paludi africane meno esplorate della storia.

«Proceda. – La invitò il professor Sherman, mentre si toglieva lo zaino dalle spalle. – Io prendo la mia macchina fotografica.»

Monica aveva già scattato decine di foto nel lungo tragitto che li aveva condotti fin qui, una camminata di quasi tre ore che attraversava tratti di giungla densa per poi addentrarsi nelle paludi di acqua mista, in parte proveniente dai grandi fiumi dell’entroterra, in parte dalle lagune a est. Il paesaggio era affascinante, con il terreno in gran parte coperto da uno specchio d’acqua mareale limpido attraverso il quale emergeva il verde intenso delle alghe e delle piante. Lame di luce, filtrando dalle fronde degli alberi, facevano brillare la vegetazione umida, e sciami di insetti di ogni tipo danzavano nell’aria. C’era vita ovunque, lì attorno. Piccole bisce che dai rami si gettavano in acqua quando si avvicinavano, pesci colorati che guizzavano tra le loro gambe, scimmie di diverse taglie che si lanciavano tra i rami nodosi e verdi degli arbusti più alti. Regnava una cacofonia di cinguettii, gracidii, canti gutturali e richiami di animali che si disperdeva in ogni direzione, come se l’acquitrino stesso gridasse entusiasta. Ma la bellezza dell’ambiente attorno a lei era solo una parte del motivo per cui Monica stringeva tra le mani la sua macchina fotografica, scattando foto in continuazione. C’era anche il fatto che scattare foto la aiutava a sentire meno la fatica, era chiaro. Ma non era da sottovalutare il fatto che scattare foto fosse la scusa perfetta per disimpegnarsi da qualsiasi conversazione poco appropriata che il professor Sherman avesse intrapreso.

«Lei è sposata, dottoressa?» «Guardi, un fungo dall’aspetto curioso!»

«Ha mai pensato che fare uno o due figli, nella vita, potrebbe…» «Ascolti, è il canto di un pappagallo… vado più avanti e vedo se riesco a beccarne una coppia!»

«E alla fine della conferenza, ricevetti il premio per la…» «Devo assolutamente fare una foto a questa mangrovia! È la luce che speravo di trovare da quando sono partita!»

Il professor Sherman non era una cattiva persona, ma come quasi tutti i professori all’apice della carriera, emanava un’aura di inconsapevole boriosità, nonché di sorprendente noia. Monica annuì con il capo quando il professore la invitò ad avanzare, ma attese qualche secondo per essere sicura che non lo avesse detto per semplice cortesia.

«Avanti! È la scoperta del secolo! Scatti qualche foto! …io la raggiungo appena trovo la mia macchina fotografica.»

Sherman si era inginocchiato nel fango e frugava nel grosso zaino scansando magliette sudate, pentolate da campeggio, scatolette di cibo e biancheria sporca. Monica sospirò e si voltò verso la “scoperta del secolo”. Se ne stava lì, immobile e priva della consapevolezza di essere speciale, con le radici piantate in un isolotto di fango ricoperto di muschio e mucillagini. Era un albero imponente, dalle fronde basse e ampie e dalle numerose radici aeree che scendevano dai rami più pesanti per piantarsi saldamente nel terreno acquitrinoso. La corteccia era liscia, le foglie concentrate agli estremi superiori delle fronde, quasi assenti sui rami inferiori. Tecnicamente, doveva trattarsi di un qualche tipo di magnolia, o di ficus. Ovviamente non era la scoperta di una nuova specie di ficus delle paludi che li avrebbe resi famosi. O che avrebbe reso famoso il professor Sherman. O meglio, era proprio quella scoperta ad essere sensazionale, ma per le peculiarità della pianta alla quale Monica si stava avvicinando, non per la scoperta in sé. Innanzitutto perché quell’albero era rarissimo. Tanto raro che nessuno, finora, l’aveva mai registrato in nessun resoconto di nessuna spedizione. Probabilmente cresceva solo in aree particolarissime, nelle paludi di acque miste, dolci e salate, di questa precisa zona dell’Africa. E poi dovevano esisterne davvero pochissimi esemplari. Una specie vegetale scampata all’estinzione per miracolo, presente solo in aree ecologiche molto particolari e molto lontane da qualsiasi attività antropica. Monica iniziò subito a scattare delle foto. Si avvicinò alle radici, stando bene attenta a infilare gli scarponi tra una e l’altra, assicurandosi di non affondare nel limo e di trovare il giusto equilibrio prima di tirar via la macchina fotografica dal collo e partire con gli scatti a raffica. Chiaramente, si concentrò sugli strani frutti dell’albero. Pendevano dai rami sorretti da filamenti fibrosi ed avevano l’orrendo aspetto di teste umane. Ma non di volti riconoscibili, piuttosto di teste in decomposizione, con espressioni grottesche, spesso agonizzanti, la bocca spalancata e la mandibola (o meglio, quella parte del frutto che somigliava terribilmente a una mandibola) penzolante al di sotto di essi. Mentre scattava le foto, Monica si chiese quale assurda forma di mimetismo potesse indurre una pianta a produrre frutti di questo tipo, somiglianti a teste umane in putrefazione.

«L’odore è acre… lo senti? – Le chiese Sherman, avvicinandosi e iniziando anche lui a scattare foto. – Credo faccia parte della strategia della pianta di mimare teste cadaveriche… i frutti, marcendo, secernono particelle odorose che somigliano agli effluvi di un corpo in decomposizione. Non è affascinante?»

A Monica veniva da vomitare.

«Affascinante.» Ripeté.

«Pensa che dovremmo prenderne un campione?»

La dottoressa rizzò la testa aggrottando le sopracciglia. La foto che stava scattando, probabilmente, inquadrò i propri piedi.

«Un campione… di COSA?»

«Uno di questi frutti!» Le indicò Sherman con entusiasmo. Dopo averli nominati, si avvicinò a uno tra i più grossi, che ciondolava a pochi metri dal suo naso. Nuvole di insetti saprofagi e ditteri di vario tipo formavano nuvole intense sopra le teste marcescenti, attirati dall’odore pungente emesso dai frutti a forma di testa stessi. Mentre Monica ancora elaborava una risposta, Sherman spinse l’obiettivo della propria reflex oltre uno sciame ronzante di insetti neri, che si dispersero velocemente. Puntò la lente della sua macchina fotografica su quello che doveva essere il naso della testa più grande. Chiaramente non era un vero naso, era più un’escrescenza con un paio di fori allungati che simulava un setto nasale mozzo e putrescente. Altre due fessure, poco più in alto e leggermente più distanziate, comparivano affossandosi tra le rughe della superficie del frutto, precisamente dove una testa umana avrebbe gli occhi. Umori giallastri e appiccicosi colavano fuori da quei piccoli pertugi, come lacrime d’ambra, e eccesso di muco nasale. Il livello di accuratezza con cui i frutti di quella pianta riproducevano una testa umana erano stupefacenti. Monica notò che non erano riprodotte le orecchie, né i capelli, ma delle mandibole di una scorza più dura scivolavano via dal basso sotto ogni frutto, di fatto aprendolo e liberando i succhi maleodoranti che, man mano che la polpa maturava, cadevano nell’acqua sottostante. Sherman scattò foto in successione.

«Io… non credo che sia una buona idea.» Disse Monica.

«Perché no?»

«Non saprei… Mi fanno orrore.»

Sherman si sollevò e le indirizzò un’occhiata di disappunto.

«Non è molto professionale, da parte sua.»

«Lo so, ma…» Cercò di spiegare la dottoressa, ma Sherman partì in quarta:

«Qui non abbiamo tutto il necessario per esaminare uno di questi frutti con la dovizia che meriterebbe, mentre Ted e Loredana, al campo base, potrebbero fare un ottimo lavoro. Da parte nostra, abbiamo fatto foto a sufficienza e segnato il punto sulla mappa. Abbiamo le coordinate satellitari di questa bellezza. Tagliare un rametto o prendere qualche foglia è fuori discussione… nel senso che lo faremo senz’altro. Ho solo qualche perplessità sul raccogliere uno di questi frutti… più che altro perché sono enormi, non saprei come conservarne uno nello zaino, e ho paura che si schiacci. Oltretutto il fetore che emana sicuramente ci attirerà orde di pappataci famelici addosso. Insomma, se non fosse per il bene della scienza, non considererei nemmeno l’opzione… ma…»

Si interruppe, la fissò.

Monica ricambiò lo sguardo. Le sembrava di essere stata abbastanza chiara in proposito. Quelle riproduzioni di teste marcescenti non le facevano “schifo”, ed era abbastanza desiderosa di studiarle meglio, ovvero di farle studiare a Ted e Loredana, ma attorno a quell’albero si addensava davvero una brutta atmosfera. L’aria le sembrava più stantia e gli insetti più feroci, come se fossero assetati di sangue. E poi quelle… cose… avevano un aspetto inquietante. Ogni frutto sembrava essere stato ucciso nell’atto di gridare, di emettere un ultimo, disperato, urlo di morte. Un urlo che non era mai stato emesso perché la testa era stata recisa e appesa all’albero, e da quel momento aveva iniziato lentamente a imputridire, fino ad assumere quell’aspetto…

«Dottoressa Lawrence!» La chiamò Sherman. Monica si rese conto di essersi persa nelle proprie fantasie, estraniandosi per qualche attimo dalla realtà.

«Va… Va bene. Prendiamone una. Possiamo usare una delle buste di plastica nelle quali tenevamo il pranzo per avvolgerla, ma non è detto che non si acciacchi o peggio, dovendola portare per tre ore nello zaino.»

Il professor Sherman non le aveva nemmeno lasciato finire la frase, che già con il coltello da frutta che teneva in una tasca aveva provveduto a recidere il coriaceo picciolo della testa più vicina, facendola cadere sonoramente in acqua.

«Dai, passami la busta!»

Monica non intendeva proporre di usare la propria busta del cibo, giacché ancora c’erano dei panini e del cioccolato che non aveva mangiato durante il viaggio d’andata, ma non osò mettersi a discutere con il professore. Si tolse lo zaino, estrasse la busta del pranzo, svuotò il suo contenuto nello zaino stesso, quindi la passò a Sherman. Un po’ goffamente, il professore provvide a far ruzzolare la testa nella busta, quindi la svuotò della maggior parte dell’acqua che vi era inavvertitamente entrata, ne afferrò le maniglie e… la porse a Monica.

«Vuole che la porti io?»

«Ma certo. Lei è sicuramente più attenta e meno impacciata di un vecchio come me.» Disse il professore, avvicinandole ancora di più la busta con la testa all’interno. Di certo Monica era meno impacciata del professore, ma non così tanto da giustificare una scelta così netta. In cuor suo sospettava che Sherman semplicemente non volesse caricare nel proprio zaino ulteriore peso, né avere a che fare con sciami di insetti attirati dall’odore di quell’orribile frutto. Prima di infilarla nello zaino, Monica si assicurò di chiudere con un nodo la busta, ma non c’era modo di sigillarla accuratamente, e la puzza emanata da quella roba era nauseante. Inoltre, a Monica parve che la testa, attraverso il sottile strato di plastica nella quale era imprigionata, la stesse fissando con astio nel momento in cui la spinse in fondo allo zaino accatastandoci sopra tutto il resto. Mentre montava lo zaino in spalla, ripensò a quella scelta e a quanto potesse essere stata pessima: sul fondo dello zaino la testa sarebbe stata schiacciata dal peso di tutte le altre cose, e sebbene il puzzo potesse considerarsi contenuto in un primo tempo, più avanti i liquami avrebbero finito per inzupparle il fondo in tela, e ogni cosa dietro la sua schiena avrebbe puzzato di morto per sempre.

«Quel che è fatto è fatto.» Disse a se stessa. Poi fece cenno al professore di essere pronta.

«Sì, andiamo. – Rispose lui. – Di buon passo dovremmo essere di nuovo al campo base fra meno di tre ore. Non vedo l’ora di esaminare quella cosa alla luce di un microscopio.»

E pronunciate queste parole, si incamminò verso sud-est. Dietro di lui, Monica. Dietro di lei, un lungo sciame ronzante di insetti.

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Comments

Minderbinder

Inquietante incipit di un film orror...

Bigio

No, prosegue. Ma era troppo lungo per un solo post, quindi l'ho spezzato.