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In effetti, fermandosi un attimo e voltandosi ad osservare l’orizzonte, Amerigo non se l’aspettava proprio che il paradiso fosse così. O il purgatorio. Comunque non sembrava l’inferno, e poi quello era abbastanza sicuro di non meritarselo.

Una luce rosea e soffusa rischiarava l’orizzonte. Stagliati contro il cielo chiaro era possibile intravedere dei rilievi, il profilo irregolare di una distante catena montuosa, ma chissà se si trattava davvero di montagne, oppure se in questo posto semplicemente l’orizzonte era fatto a zig-zag. La luce lo costrinse ad abbassare lo sguardo, e finì per fissarsi le scarpe, delle superga da ginnastica con la tela tutta consunta, sbiadita e sporca, le stesse che indossava quando -presumeva- fosse morto. Jeans, maglietta, giacchetta scamosciata, orologio digitale al polso (che aveva smesso di funzionare), niente nelle tasche a parte una sua foto-tessera. Sembrava vecchiotta, ma lo ritraeva com’era al momento, capelli pettinati all’indietro e barba incolta. Trent’anni e disoccupato. Non ricordava di aver scattato foto prima di… beh… prima di morire. Né di averne infilata una in tasca. Ricordava invece di avere in tasca il cellulare, e anche il portafogli. Li infilava sempre nelle stesse tasche, e non li dimenticava mai. Ma non li trovava, e non ricordava dove li aveva messi.

Pensò che fosse inutile perdere altro tempo. Tornò a salire quei gradini infiniti. Una scala di gradini di marmo bianco, consunto, incrostato di polvere che proveniva da chissà dove. La scala saliva verso il cielo e non riusciva a vederne la fine. A volte i gradini giravano su se stessi, altre volte si allungavano su archi e poi tornavano indietro. Quasi mai c’era una balaustra a impedire di precipitare nel vuoto, ma la scalinata era ampia e mantenendosi al centro di ogni gradino Amerigo riusciva ad evitare il senso di vertigine. Attorno a sé il panorama era dominato da rovine antiche, ruderi, come se in passato questo posto fosse stato abitato e poi fosse stato abbandonato. Rocce rossastre emergevano dal terreno bruno, glabro, privo di vegetazione. Gli parve di tanto in tanto di intravedere delle ombre in cielo, come stormi di uccelli, ma non riusciva mai ad osservarli bene: erano veloci, e volavano bassi contro la luce all’orizzonte. Sagome nere. “Angeli.” Pensò Amerigo, continuando a salire. Controllano che le anime non si smarriscano. Ma come avrebbero potuto smarrirsi? Non c’erano deviazioni, non c’erano porte o ingressi. Non c’erano nemmeno panchine di pietra o parapetti sui quali sedersi, il più delle volte. Da quando aveva iniziato a salire le scale, Amerigo si era imbattuto un paio di volte in piccoli spiazzi delimitati da robuste balaustre, sulle quali aveva pensato di sedersi, o di fermarsi a riposare. Ma non si era ancora stancato. Sembrava non sentire la stanchezza. Era il paradiso, dopotutto. Aveva senso.

Un’altra cosa che lo lasciava perplesso era l’assenza di altre anime. Quanta gente moriva, ogni giorno? Ognuno di essi si ritrovava su una scala diversa? C’erano migliaia di scale? C’erano scale solo per gli uomini o anche per gli animali, come cani e gatti? Sì, certo, secondo il cristianesimo solo l’uomo ha un’anima, ma chi assicurava ad Amerigo che il paradiso fosse cristiano? Forse si trovava nel paradiso buddista, o in quello dei musulmani… o forse in un altro posto che nessuna religione aveva ancora descritto. Continuò a salire. Il suo pensiero vagava tra le diverse ipotesi e non riusciva a non chiedersi cosa potesse esserci lassù, in cima alla scalinata, chi avrebbe incontrato. Scartò l’idea che la scala fosse infinita perché man mano stava salendo di quota, il suolo si allontanava ad ogni passo e le nuvole cominciavano a scivolare più in basso rispetto a lui. Quindi, a meno che la scala non avesse proseguito nello spazio e attraverso l’universo, ad un certo punto sarebbe terminata. E siccome la ciclopica struttura iniziava da qualche parte sulla Terra, era abbastanza plausibile che sarebbe terminata da qualche parte prima di sconfinare fuori dal pianeta, dalla sua atmosfera. Ad ogni modo Amerigo non avvertiva né freddo né affaticamento nel respirare, due disagi che si aspettava di dover affrontare ormai, giunto a quell’altezza. Eppure nulla. Procedeva gradino dopo gradino alla quota di crociera di un jumbo-jet senza nemmeno sentire freddo. Scrollò le spalle e si diede la solita spiegazione: era morto, quindi tutto era spiegabile.

D’un tratto, sfiorando il pensiero dell’altezza, si rese conto di non avere memoria di quando avesse imboccato quella scalinata. Non ricordava di essersi imbattuto in quella altissima scalinata e di aver salito il primo gradino. Non riusciva a ricordare nemmeno come fosse la scala alla base, se attorno ai primi gradini ci fosse un edificio, oppure se la scalinata si allargava, se c’erano delle fontane, dei monumenti, degli archi di pietra. Se la scala atterrava su un prato verde o su una roccia, o all’interno di una torre. Nulla. Nei primi ricordi a cui aveva accesso Amerigo stava già salendo la scala, ed era già a una considerevole altezza. Cosa significava? Che forse i primi gradini sono già stati affrontati durante la propria vita? Era una possibilità. In base al merito, ci si trovava già a buon punto nella risalita di quella scalinata. Chi in vita si era comportato “male” probabilmente iniziava la scalata molto più in basso, rispetto a chi si era comportato “bene”. Però a quel punto Amerigo si fermò a riflettere. Si fermò anche fisicamente, in piedi al centro di un gradino in mezzo al cielo azzurro, con le nuvole bianche che circondavano la sua scala e la luce del giorno che brillava con incredibile intensità, nonostante non fosse visibile alcun sole. Non poteva essere così. Se in base al merito ci si fosse trovati a partire più o meno in alto, salire migliaia e migliaia di scalini sarebbe stato quantomeno faticoso. Solo in questo modo apparire più in basso sarebbe stata una sorta di “punizione”. Invece Amerigo macinava gradini da ore e ore, e non si sentiva affatto stanco. Non gli dolevano le gambe, non sentiva l’acido lattico addensarsi attorno ai muscoli, non percepiva alcuno sforzo. In assenza di sforzo e di fatica, per un defunto ritrovarsi un migliaio di metri più in alto o più in basso in base al comportamento adottato in vita, sarebbe stato perlopiù indifferente.

A meno che da qualche parte, lassù, non discriminassero in base all’ordine di arrivo. Allora certo che sarebbe stato uno svantaggio partire 3000 gradini più in basso di un’altro defunto. Ma allora… Amerigo avrebbe dovuto sbrigarsi! Riprese a salire le scale, con un ritmo più sostenuto. Senza correre, ma molto più velocemente di quanto non avesse fatto finora. Non provando fatica, si trattava quasi solo di un esercizio mentale, di abituarsi a mantenere quel ritmo, cioè a salire quei gradini non più con calma e tranquillità ma quasi di corsa. Come aveva sospettato, non si affaticò nemmeno accelerando la risalita. Iniziò a saltare i gradini due a due, e dopo averne risaliti forse un centinaio non si sentiva affatto indolenzito. Non aveva neppure il respiro affannoso. Era morto! Forse respirava solo perché il suo corpo era abituato a farlo, ma non ne aveva più bisogno. Anche su questo avrebbe voluto rimuginare, ma ora c’era ben altro ad occupare i suoi pensieri: la fretta di arrivare al più presto in cima alla scalinata. Chissà quante altre anime erano partite alla stessa sua altezza da terra, e chissà in quanti avevano proceduto salendo le scale con calma. In pochissimi, probabilmente, avevano capito che il tempo impiegato a raggiungere il vertice di quell’altissima struttura avrebbe potuto fare la differenza. Chi prima arrivava, meglio alloggiava. Forse valeva anche per il paradiso. Amerigo continuò a saltare i gradini due a due. Sorrideva, si sentiva straordinariamente furbo. Ed era ansioso di scoprire cosa ci fosse al termine di tutti quegli scalini di levigata pietra bianca.

Ecco la sommità! Riusciva a vederla. Una sporgenza a becco di tucano, a cui la scalinata giungeva dopo una serie di gradini più bassi e più ampi. E in fondo alla sporgenza, una struttura metallica. Un intreccio di tubi. Come dei corrimano di alluminio che si aggrovigliavano formando una sorta di arco lucente. Amerigo si avvicinò meravigliato.
«Sono in cima! Ce l’ho fatta! Com’è andata?» Gridò.
Ma non c’erano arbitri a tenere il tempo, né a sventolare bandierine. Non c’era nessuno. Lassù in cima c’era lui da solo, come su tutta la scalinata. Nessuno con cui scambiare due chiacchiere, nessuno a cui fare qualche domanda, nessuno che si congratulava per aver risalito qualcosa come venti chilometri di scalinata, in altezza. Si avvicinò al groviglio metallico e scoprì che oltre l’arco c’era dell’altro. Il terreno roccioso si stringeva, l’ultimo gradino di pietra si allungava e oltre quello… c’era una tavola di legno. Oscillava sospesa nell’aria, verniciata di azzurro come il cielo nel quale era immersa. Era un’asse lunga un paio di metri, larga mezzo metro, non di più. Non c’era vento e non c’era sole, ma tutto era illuminato. Amerigo avanzò fino a poggiare il primo passo sull’asse. Vide che era sospesa nel vuoto. Sotto di lui, centinaia di metri sotto, le nubi. E poi, forse, la terra. Ma cosa avrebbe dovuto fare, a quel punto? Tuffarsi? Avanzò di un passo, poi di un altro. Allargò le braccia. Attorno a sé sentiva il vuoto, forse non c’era nemmeno più l’aria. Forse, ora, era immerso nel nulla. Era risalito lasciandosi tutto il mondo alle spalle, l’unica cosa che restava della sua vita precedente era il corpo che ora si ergeva in piedi sull’infinito. Era stato un percorso di purificazione? Un metaforico lasciarsi tutto alle spalle? Gli pareva un’ipotesi assurda, eppure sempre meno incredibile ad ogni secondo che passava.
«Tutta questa fatica per lasciarmi ogni cosa alle spalle, per salire fino in cielo, per liberarmi di ogni aspetto del mondo e sentirmi al di fuori e lontano da ogni cosa… e ora cosa dovrei fare? Rituffarmici dentro?» Gridò. Non sapeva a chi si stesse rivolgendo. Forse in cuor suo sperava nell’apparizione di una divinità qualche indiana, avvolta nei petali e nelle polveri colorate, che l’avrebbe guardato con compassione dicendogli “coraggio, dai”. Forse avrebbe avuto meno paura, meno timore di fare una cazzata. Rifletté sulla paradossalità del fatto che ci fossero regole, che potesse davvero sbagliare qualcosa, che potesse aver male interpretato qualche indicazione. Del tipo: e se avesse dovuto scendere anziché salire? Sai che ridere. Ma no, non era possibile, nel suo primo ricordo di quel luogo stava già salendo. Se anche fosse stata una scelta che aveva fatto in vita, ancor prima della morte, allora tanto meglio. Era morto e aveva perseverato in quella scelta. Risalire, allontanarsi, purificarsi. Per un attimo si sentì cristallino, puro, trasparente, come una goccia d’acqua creatasi in cielo, pronta ad immergersi nuovamente nell’oceano e scomparire. Tirò fuori la foto-tessera dalla tasca, quella dove sarebbe dovuto esserci il suo volto. Ma non c’era. Era bianca. La gettò via, e poi la seguì.

Un indicatore si illuminò di rosso. Il dottor Leung sospirò. Era il diciassettesimo paziente che perdeva, dall’inizio della sperimentazione. Per sicurezza controllò tutti gli indicatori, aprì altre finestre sulle quali scorrevano fiumi di cifre, seguì con lo sguardo le curve di alcuni grafici. Scosse la testa, si tolse gli occhiali e li appoggiò sul tavolo.
«Andato?» Gli chiese la sua assistente, una dottoranda dai capelli ricci e neri che di cognome faceva Dallas, come la città americana.
«Andato.» Rispose Leung in un’inglese dallo smaccato accento straniero. «Non hanno pazienza. Non ci danno il tempo di trasferire tutti i dati. Abbandonano la loro coscienza prima di… di fine processo.»
Dallas si avvicinò ai monitor e diede un’occhiata ai numeri e alle linee.
«Accidenti. Quest’ultimo era al 94% di trasferimento.» Commentò.
«Esatto! Che peccato! Che peccato!» Ripeté Leung.
«Se avesse aspettato qualche minuto in più, saremmo riusciti a digitalizzare la sua coscienza, e avremmo potuto garantirgli l’immortalità.»
«Eh! — Disse Leung, alzando le mani in un gesto plateale. — Immortalità è per gli dei! Noi garantiamo solo un altro tipo di vita.»
«Ma certo, – disse Dallas, – non intendevo quel tipo di immortalità. Sarebbe stato il primo essere umano che viene completamente trasferito all’interno di un computer. Sarebbe passato alla storia. Lui, e anche noi.»
Il dottor Leung annuì, massaggiandosi gli occhi.
«Sa cos’è che non funziona? Il pensiero è libero di vagare, durante il trasferimento. E cinque minuti per noi, sono ore e ore alla velocità del pensiero. Così, mentre noi digitalizziamo la coscienza del soggetto, lui fugge. Immagina, sogna. Dà concretezza alle proprie idee senza il limite di un confronto con la realtà. Così la mente dei soggetti si perde nell’iper-uranio, nella creatività pura, e non torna più indietro. Non torna al confronto con la realtà materiale.»
«Allora… – Ipotizzò Dallas versandosi un po’ di caffè in una tazza sporca – Perché non gliela forniamo noi, una realtà con cui confrontarsi? Voglio dire… non abbandoniamoli alla creatività pura. Forniamo loro un ambiente a cui adattarsi.»
Leung riappoggiò gli occhiali sul naso. La sua faccia era immobile, ma Dallas sapeva che questo era un buon segno. Stava riflettendo. E se rifletteva, voleva dire che la sua proposta era abbastanza buona da essere valutata.
«Stai pensando alla simulazione Oltreverso? All’interfaccia L.1.S.A.?»
Dallas stava facendo vorticare il caffè nella tazza tramite una bacchetta di vetro, e annuì sorridendo. Era proprio a quello che aveva pensato. La simulazione Oltreverso era stata pensata come il luogo virtuale al quale una coscienza digitalizzata sarebbe approdata una volta completato il processo di trasferimento, e L.1.S.A. era una sorta di assistente virtuale che avrebbe interagito con le coscienze digitalizzate per spiegare loro cosa stava accadendo. Ma avrebbero potuto sfruttare sia la simulazione che l’interfaccia sin dalle prime fasi della digitalizzazione in modo da fornire ai soggetti un luogo preciso nel quale ritrovarsi mentre la mappatura del loro cervello procedeva in background. D’altronde molte delle funzioni della corteccia e delle altre zone del cervello non erano immediatamente utili, nell’ambiente digitale. E quelle utili potevano essere trasferite in pochissimo tempo, lasciando davvero poco spazio alla mente dei soggetti per distaccarsi completamente dalla realtà e perdersi nel nulla.

«È un’ottima idea.» Disse infine Leung.
«Grazie, dottore.»
«Stanotte resti in lavoro?» Chiese.
«Neanche per sogno. – Gli rispose Dallas con un sorriso. – Ho già preso altri impegni per la serata. Ma domani mattina sarò la prima faccia che vedrà in laboratorio.»
Leung sorrise e annuì con la testa.
«Lei, piuttosto, non si trattenga qui per tutta la notte! Torni a casa, dorma. Così domani avrà tutta l’energia di cui abbiamo bisogno per il nuovo soggetto. Vedrà che sarà la volta buona.»
Leung sorrise di nuovo e annuì ancora con la testa. La sua assistente aveva ragione. Avrebbe dato una scorsa veloce ai dati di quest’ultimo procedimento, fallito per un margine di tempo davvero minimo, e poi sarebbe tornato a casa. Domani sarebbe stata la volta buona. Ruotò una valvola e abbassò un paio di leve meccaniche. Il corpo di Amerigo Duchamp scivolò via dal grosso cilindro metallico nel quale era stato infilato, e gli elettrodi infilati con cura sul suo cranio si strapparono emettendo un rumore simile a quello del feltro. Leung ci era abituato. Il corpo seguì una tubatura e cadde all’interno di un vano stretto e buio, laddove sarebbe stato raccolto da un nastro e trasportato all’inceneritore.
“Soggetto 17 versione 1.5 Amerigo Duchamp” compariva su un piccolo schermo led. Leung premette un tasto sul touchscreen davanti al suo naso. Di seguito alla precedente scritta si aggiunse “94% - fallito”. Leung sospirò, poi si tolse il camice, spense la luce, e chiuse la porta del laboratorio.

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Comments

Gnometra

Molto bello! :') :'( Alla fine hai visto la serie "the good place"?