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Gli stivali di Sergione, avanzando sul sentiero sterrato, producevano un rumore rassicurante. Era lo scalpiccio tipico di quando si calpesta un terriccio denso di ghiaia e intriso di umidità, con qualche foglia secca e qualche rametto fradicio impastato nel mezzo. Per Sergione, che calcava la strada oltre la staccionata, era rassicurante. Significava che il terreno sotto i suoi piedi c’era ancora, e non solo: era esattamente il tipo di terreno che si aspettava dovesse esserci. Ogni passo, ogni rumore, gli confermava che la densa nebbia grigia non aveva inghiottito il mondo intero, e che al di sotto delle sue ginocchia c’era ancora qualcosa di solido su cui camminare.
«Che tempo di merda.» Biascicò, stringendosi nel piumino azzurro. Sotto di quello indossava un maglione di lana, e sotto ancora una camicia pesante. E sotto la camicia una maglietta di cotone. Ma non bastava: il freddo di quella notte gli si infilava per il collo giù sulla schiena e lo faceva rabbrividire. Era notte fonda e non aveva mai visto una foschia tanto densa, non riusciva davvero a vedere a due metri di distanza. Aveva lasciato la Volvo all’inizio della stradina di terreno battuto, con i fari accesi perché pensava di far presto. Non si era addentrato con l’auto fino al ristorante perché non voleva perder tempo a fare manovra nell’angusto spazio auto sul retro dell’edificio, ma adesso ad ogni passo ripensava a quanto avrebbe fatto bene a restare col culo sul sedile anziché scendere per raggiungere a piedi la porta sul retro. Il ristorante in questione era la trattoria-pizzeria “Lo Chef”, chiusa da quasi due anni ormai. Il locale, ricavato in un edificio prefabbricato che sorgeva in fondo a una strada sterrata a cui si giungeva dalla provinciale, era andato in malora, forse proprio a causa della distanza da qualsiasi centro abitato. Quando il gestore decise di affittare il locale appartenente a Sergione, credeva che per mangiare una buona pizza o della carne alla brace di prima qualità, chiunque sarebbe saltato al volante e avrebbe guidato per almeno un quarto d’ora fino alle porte della trattoria. Ma si sbagliava. L’entusiasmo delle prime serate, la novità e il passaparola che avevano portato tanta gente a sedersi ai tavoli de “Lo Chef” si erano spenti nel giro di pochi mesi. E dopo altrettanti mesi trascorsi agonizzando, il gestore aveva gettato la spugna. Da allora l’edificio era rimasto sfitto, e Sergione aveva addirittura cercato di venderlo, ma non era stato fortunato. Così gli erano rimaste sul groppone quelle quattro mura di cemento armato che lentamente si stavano trasformando in un rudere impossibile da allocare. Le pareti si erano velocemente riempite di macchie, le erbacce avevano insidiato i marciapiedi, le lampadine e i neon si erano quasi tutti fulminati, e la metà dei vetri delle finestre erano già stati incrinati o rotti, forse dal tempo, forse dalle sassate di qualche ragazzaccio di passaggio. Una cosa che ancora funzionava era però l’allarme antifurto. Un sistema che Sergione aveva installato considerando che il luogo, edificato in mezzo alla campagna, avrebbe potuto attirare l’attenzione dei malintenzionati della zona. Tuttavia nell’ultimo anno gli avvisi di allarme, che gli venivano recapitati via sms sul suo cellulare, erano stati solo due: nel primo caso si trattava di un piccione entrato da una finestra rotta, nel secondo caso di un tizio ubriaco che aveva tentato di entrare scambiando il ristorante per un edificio abbandonato. E poi stasera.

La luce emessa alle sue spalle dai fari della macchina iniziò a non essere più sufficiente. Sergione sfilò il cellulare dalla tasca e fissò il messaggio che compariva sullo schermo. Un sms, di quelli che non usa inviare più nessuno. Adesso c’è la messaggistica istantanea via internet. Il messaggio diceva: “tentativo di irruzione nel vostro locale sito in via del Cedri 2 - servizio allarme fornito da So.Mar.” e niente altro. Sollevò la testa e attivò la funzione “torcia” dello smartphone, con la quale riuscì a illuminare quel poco di terreno visibile di fronte a sé. Un paio di passi dopo, vide apparire davanti a sé la porta della trattoria-pizzeria “Lo Chef”. Era una porta metallica chiazzata di ruggine con una grossa catena a tenerla chiusa. La catena era tenuta stretta da un lucchetto imponente, di cui Sergione ovviamente aveva la chiave. Ma non la estrasse nemmeno. Afferrò la catena, la scosse, si rese conto che la porta era ancora chiusa. Forse un altro piccione entrato dalla finestra sul lato dell’edificio? L’ultima volta aveva tappato quel buco con un cartone, ma forse il cartone era marcito e si era di nuovo aperto un varco dal quale avrebbero potuto entrare gli uccelli e far scattare l’allarme. Anche se a quest’ora della notte, era più probabile che fosse entrato un pipistrello. Si avviò sul marciapiede infestato di erbacce, ma si blocco dopo appena un passo. La parete era segnata da grossi solchi. Si avvicinò per osservare meglio. Erano grossi solchi che la scavavano in obliquo, da destra in alto fino a sinistra in basso, a mezzo metro di altezza sul marciapiede. Sembravano segni di picconate, sebbene molto più lunghi e continui, e poi erano stranamente paralleli. Come una enorme artigliata. Avvicinò la torcia del cellulare. C’erano detriti a terra e altre artigliate più piccole. Si rese conto che se avesse ipotizzato che quelli fossero gli artigli di non so quale bestia feroce, sembrava proprio che l’animale avesse colpito la parete con un paio di sferzate potenti e poi si fosse mosso oltre l’angolo. Deglutì. Non era certamente quello il caso. Di cosa poteva trattarsi, di un leone fuggito dallo zoo? E comunque un leone non avrebbe avuto forza sufficiente per incidere il muro di cemento con i suoi artigli. Piuttosto un orso. Un grosso orso. Ma come poteva esserci un orso feroce libero per le campagne dell’alto Lazio? Si sentì un deficiente anche solo a pensarci. Si sentì anche rabbrividire, solo a pensarci.
«Daje, Sergio’… – disse a se stesso. – Fai ‘sto giro e tornatene a casa.»
Una voce femminile lo raggiunse alle spalle.
«Come, scusa?»
Sergione si voltò di scatto e il bagliore di una forte lampada lo sorprese, abbagliandolo e facendolo indietreggiare d’istinto. Si ritrovò a cozzare contro il muro, spaventato e accecato, lo stesso muro sul quale aveva visto le artigliate.
«Thorpe, Kripke… guardate! Tracce del passaggio del bersaglio.» La voce femminile parlò ancora. Sergione ormai era scivolato fino a sedere a terra. Non appena gli tolsero la luce dalla faccia, riuscì a intravedere tre persone. Soldati, apparentemente. Imbracciavano fucili d’assalto e indossavano delle mimetiche corazzate. Sergione non ne capiva un cazzo di equipaggiamento militare, ma quella roba gli sembrava più uscita da un videogioco futuristico che vero equipaggiamento militare.
«Chi… chi siete?» Balbettò sollevando le mani.
Uno dei tre gli si avvicinò. Voce maschile.
«Sei di qui? C’è qualcun altro?»
«No… non credo. Cioè… sono il proprietario, ho ricevuto un allarme intrusione. Forse c’è un ladro. Ma… chi siete? Che state facendo?»
L’uomo gli lanciò un’occhiata veloce, senza distrarsi troppo. I suoi due compagni già erano andati oltre, girando l’angolo. Si rialzò, e con tono privo di emozioni gli disse:
«Resta qui. È per la tua incolumità. Non muoverti, non fare rumore.»
Poi il soldato voltò l’angolo e assieme a lui se ne andò anche la luce. Attorno a Sergione calò di nuovo la tenebra, resa ancora più pesante da quella nebbia grigia, fitta e gelida. Cercò sul marciapiede il suo cellulare. Gli era caduto di mano quando era stato colto di sorpresa da quei tre, ma per fortuna non si era rotto. Riaccese la torcia. Illuminò i dintorni.
«Ma che cazzo succede…» Mormorò.
Rumore di vetri infranti. Voci confuse. La ragazza sta gridando qualcosa. Rumori di spari. E che spari! Raffiche, fuoco automatico, ma doveva trattarsi di proiettili di grosso calibro. Era come se tre martelli pneumatici avessero iniziato a colpire il cemento a due passi dalla sua testa. Gridò, ma non riuscì a sentire il rumore delle sue stesse grida. Si gettò a terra premendosi le mani sulle orecchie. Tra la mano e l’orecchio destro si ritrovò il cellulare. Lo lasciò cadere e premette i palmi sulla testa il più forte possibile. Per quanto premesse, le raffiche di colpi continuavano ad essere assordanti. La parete, il marciapiede, gli sembrò che la terra stessa tremasse, scossa da quel fragore. Notò flash di luce che facevano brillare la nebbia, ma era difficile riuscire a capire cosa stava accadendo nel buio. Poi qualcosa di grosso e nero gli passò davanti, e si rese conto che il peggio doveva ancora venire.

L’essere spuntò da oltre l’angolo dell’edificio. Era un energumeno muscoloso completamente nero, con la stazza e la corporature di un body-builder, ma decisamente non era un culturista. Le zampe posteriori erano ritorte e corte, quelle anteriori spesse come tronchi e terminavano con lunghe dita affilate. Là dove avrebbe dovuto esserci una testa c’era invece un bulbo informe sul quale erano disposte file interminabili di denti aguzzi, a formare un sorriso sinistro. Non c’erano occhi. O meglio, non c’erano occhi che potessero essere definiti come tali. Il corpo della creatura era disseminato di macchie luminescenti, fori della pelle dai quali emergevano bulbi brillanti che davano all’intero corpo della bestia le sembianze di un manto stellato in movimento. Con gli artigli. E i denti affilati.
«È qui!» Gridò una voce.
Riaprirono il fuoco. La creatura scartò di lato e passò a un palmo dalla faccia terrorizzata di Sergione, fermandosi di fronte alla porta metallica del ristorante. A quel punto i colpi cessarono. La bestia ruotò il corpo e sembrò per un attimo rendersi conto del fatto che lì a terra ci fosse un essere vivente, un ammazzo tremante di carne, sudato e ansimante, in preda ad un attacco di panico. Ma fu, appunto, solo un attimo. Con uno scatto di una violenza indescrivibile si proiettò in avanti sfondando la porta metallica. Proprio così. La sfondò. Sergione vide i cardini d’acciaio della porta staccarsi dall’intelaiatura e volare via, mentre polvere e detriti si sollevavano per mescolarsi con la nebbia. Il fascio di luce proveniente dal suo cellulare, a terra, illuminò evidenziandoli riccioli di cemento polverizzato che turbinavano in alto nella foschia. Strani stridii provennero dall’interno del locale. Di nuovo voci che impartivano ordini e poi un lugubre silenzio. Infine, il concerto di colpi riprese. Stavolta però, Sergione riuscì a carpire il lamento della bestia che si ritrovava nel mezzo di un letale tiro incrociato da parte dei suoi tre inseguitori. I lamenti della creatura erano strazianti, simili alle grida di un maiale al macello, ma le raffiche dei fucili automatici non si fermarono finché quelle grida non cessarono. Poi silenzio. Poi un brivido lungo la schiena.

Sergione, allungando una mano tremante, raggiunse il telefono e tornò lesto a sedersi a terra. Sentiva nel corpo gli spasmi dovuti all’adrenalina, respirava affannosamente, ogni arto era scosso da fremiti e temeva di svenire da un momento all’altro. Avrebbe voluto scrivere un messaggio a sua moglie, ma non ci riusciva. Stringeva il telefono tra le dita intirizzite dal freddo e sapeva che non sarebbe mai stato in grado nemmeno di pigiare il tasto “chiama”. E se anche fosse riuscito a chiamare, non avrebbe avuto fiato sufficiente per dirle che stava per morire, che era terrorizzato e che la ringraziava per tutto. Non era “ti amo” che avrebbe voluto dirle, nulla di così banale. Avrebbe voluto dirle “grazie”.
«Ehi, tutto bene?» Gli fece una voce. Voce femminile. Proveniva dalla porta.
Sergione si voltò. Era la ragazza. Dei tre, una era una ragazza. Era molto bella. Carnagione pallida, capelli chiari, occhi cerulei. La vide bene in volto perché lei si avvicinò, gli afferrò la faccia e gliela torse prima a destra e poi a sinistra. Aggrottò le sopracciglia e lo fissò negli occhi, quindi disse:
«È incolume. Ma in stato di shock.»
«Che facciamo?» Chiese uno degli altri due.
«Non possiamo fare nulla. I resti del costellato sublimeranno, quando la nebbia si disperderà del corpo della creatura non resteranno che manciate di sabbia nera. Tutto il resto non basterà a provare nulla.»
La ragazza si voltò di nuovo verso Sergione.
«Va tutto bene. Non è successo nulla. Una bestia feroce scappata dal suo habitat. L’abbiamo eliminata. Quando ti sentirai meglio potrai tornare a casa. Prendi questa, è una barretta energetica. Casomai ti venisse fame.»
Gli porse quella che sembrava una stecca di frutta secca pressata, avvolta in una pellicola di plastica trasparente.
«Se fossi in lui, l’ultima cosa che vorrei sarebbe mangiare qualcosa.» Disse uno dei due uomini.
«Sì, beh... se fossi in lui la mangerei... e poi la vomiterei.»
La ragazza si rialzò in piedi e si riunì ai suoi due compagni. Tutti e tre si diressero verso il folto sottobosco del campo oltre la staccionata che delimitava il terreno di Sergione. Lui li seguì con lo sguardo finché un bagliore sinistro non illuminò la boscaglia. Una brezza gelida spinse via la nebbia, che si diradò con incredibile velocità. La luna piena splendeva alta in cielo. Sergione notò qualcosa sul viale. Adesso che la foschia si era dissolta, i fari della sua Volvo illuminavano abbastanza chiaramente il cortile di fronte al ristorante. C’erano dei corpi nel cortile. Corpi sbranati. Brandelli di carne di cadaveri umani in parte divorati. Poco più in là, sulla provinciale, a cinquanta metri dalla sua auto, c’era una Punto con il parabrezza sfondato e gli sportelli divelti. In mezzo alla strada.
«Ma che cazzo…» Sussurrò Sergione. Non poteva sapere di chi fosse quella Punto, di chi fossero quei corpi, e non avrebbe mai saputo nemmeno chi fossero i tre soldati di quella notte. Attese quasi un’ora seduto sul marciapiede dissestato. Tornò a casa che era quasi l’alba. Chiamò la polizia dal telefono di casa, dopodiché si sedette sulla sedia della cucina e attese ancora. Attese fino alle 7.45, quando sua moglie si alzò per andare al lavoro e lo trovò lì, in cucina, seduto, immobile. Lui le disse: «Grazie.» Lei annuì, e andò a farsi una doccia.

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