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Era un mondo di nebbie dense e scure. L’atmosfera era satura di umidità ovunque, tranne che all’estremo nord e all’estremo sud del pianeta. A parte i poli, il resto delle terre emerse erano completamente avvolte da una foschia perenne, che filtrava la luce dei due soli trasformandoli in due dischi opachi e sfocati, che di giorno illuminavano il panorama grigio con luce pallida e diffusa. Era grazie alle nebbie se su Draconis-3 b si erano sviluppate forme di vita in qualche modo analoghe a quelle di Sol c. Mucillagini, e muschi in grado di sfruttare la debole luce che raggiunge il suolo soprattutto nei giorni in cui la nebbia si dirada e la visibilità arriva a qualche centinaio di metri. E poi qualcosa di assimilabile agli artropodi, dei molluschi striscianti che somigliano all’incrocio tra delle lumache e dei polpi… fino ad arrivare ad alcune specie più complesse. E tra queste, i costellati. Umanoidi muniti di più arti, bulbi oculari luminescenti sparsi su tutto il corpo, e denti aguzzi. I costellati sono predatori, vanno a caccia di altre specie di cordati che a loro volta si raccolgono attorno alle rocce più esposte alla luce, in quanto si nutrono delle mucillagini e dei licheni che crescono su di esse. Poi è arrivata l’uomo. Dapprima piccole squadre di scienziati, poi le compagnie per lo sfruttamento delle risorse esoplanetarie. E i costellati hanno trovato prede più nutrienti da cacciare.

Con il suo binocolo a infrarossi, Silvie scrutava la distesa di rocce coperta di muschio che si estendeva altre le palizzate dell’avamposto. Come tutti i soldati era stata addestrata all’uso di diverse armi da fuoco, ma su Draconis-3 b, a parte il fucile Kerk-22 che teneva dietro la schiena, qualsiasi arma in dotazione era considerata pericolosa. Troppa umidità, dicevano. L’energia si disperdeva, i meccanismi si inceppavano, i taser rischiavano di folgorare chi ne faceva uso. E a dirla tutta, in ogni caso, la maggior parte delle volte la visibilità era talmente scarsa che era inutile impugnare un fucile. Per questo le erano state consegnate anche due armi bianche: un’alabarda con lama d’argento a vibrazione sonica, e un coltello d’acciaio, vecchio tipo, il più affidabile. In uno scontro diretto contro un costellato, tuttavia, in pochi erano sopravvissuti. Non bastava un colpo di fucile ad abbatterli, e farli fuori in un combattimento all’arma bianca era un’impresa titanica: erano forti, veloci, e sapevano sfruttare la nebbia grigia e il terreno a loro vantaggio. Proprio come se quella fosse la loro casa. Silvie senza il respiratore ausiliario avrebbe avuto difficoltà persino a respirare, tanto era densa l’atmosfera di quel pianeta. E senza il visore, nelle giornate peggiori non avrebbe visto visto più in là di tre o quattro metri dal proprio naso. Inoltre la gravità era maggiore rispetto alla Terra, tutto pesava di più e ogni movimento era più stancante del solito. Pensava a casa e ai campi di erba verde che si estendevano oltre il portico della sua casa in campagna. D’estate si riuscivano a vedere le montagne all’orizzonte. C’erano lucertole che si stendevano sulle rocce delle mura di cinta a prendere il sole, e il verso delle cornacchie che riempiva l’aria immobile, soprattutto al mattino presto. Aveva nostalgia di casa, ma si trattava di un sentimento più ampio, non così banale. Nostalgia del proprio pianeta. Nostalgia di un ambiente che ha cullato la propria specie e al quale la propria specie si è adattata nel corso delle ere, un ambiente confortevole, come un divano sul quale è rimasta la forma del proprio culo e il calore del proprio corpo. Questo pianeta, Draconis-3 b, non aveva nulla di confortevole. Era sgradevole. Ecco la parola giusta. Sgradevole, sbagliato, come un pezzo di puzzle che non si incastra con il proprio. Tutto era sbagliato, inadatto. Tutto era un “sarebbe dovuto essere meno” oppure un “sarebbe dovuto essere più”. Nulla andava bene, nulla era perfetto. Eppure, per gli esobiologi, era uno dei pianeti più simili alla Terra, Sol 3. Silvie scosse la testa, emergendo dai propri pensieri. Non avrebbe mai voluto immaginarsi gli altri. Il fatto di essere finita su Sol 3 doveva considerarlo una fortuna.

«Elendottir, mi senti?» La comunicazione si aprì di colpo attraverso il comunicatore che portava all’orecchio. «Cabina 2 è sotto attacco.»
«La ricevo, sergente.»
«Protocollo di emergenza alpha! E faccia in fretta, maledizione!»

Silvie ripiegò l’alabarda e la ancorò alla schiena, quindi scivolò sulla scala a pioli fino a raggiungere il terreno molliccio sul quale era stato eretto l’avamposto, e corse verso la cabina 2. Attorno a sé non vedeva altro che nebbia, ma ovunque riecheggiavano rumori metallici e di tanto in tanto un’eco innaturale restituiva delle grida soffuse. Per fortuna aveva una navigatore, al polso. Senza di quello, si sarebbe sicuramente smarrita nella foschia. Calpestò qualcosa che non sembrava fango, bensì il corpo di una persona. Forse uno dei biologi, o forse un astrofisico o un tecnico. La cabina 2 era il sito designato per l’assemblaggio del proiettore di ponte a materia esotica, ovvero l’E.M.B.P., che era stato già completato ma ancora mai utilizzato in quanto il processo di apertura del ponte era troppo dispendioso e si attendeva di aver accumulato abbastanza materia da spedire. Era per questo che era stato ingaggiato il corpo militare nel quale prestava servizio Silvie: assicurarsi che le operazioni procedessero in sicurezza per il tempo necessario. A quanto pare, era arrivato il momento di guadagnarsi la paga.
«Soldato… Soldato!» Le gridò l’uomo steso a terra, mentre Silvie scostava velocemente il piede dalla sua gamba.
«Mi scusi, non l’avevo vista. È ferito?»
Si inginocchiò su di lui e cercò di esaminarlo. Era completamente coperto di fango e mucillagine, era difficile capire le sue condizioni, soprattutto perché il visore a infrarossi le impediva di avere una visuale nitida. Fece per togliere il visore, ma lui glielo impedì afferrandole il braccio in un’impeto quasi furioso.
«Non la tolga! È nella cabina! Vada a ucciderlo!»
«Va bene.» Disse lei, con meno sicurezza di quanta avrebbe dovuto trasmetterne. Si congedò con un gesto dall’uomo, sperando che non fosse ferito gravemente. La cabina era lì vicino, riusciva a vedere il riflesso di alcune lampade alogene sulla tenda lucida, anche attraverso la nebbia fumosa. Dall’interno udì provenire stridii e rumori di cristalli infranti. Poco rassicurante, ma niente in confronto alla vista della porta principale della struttura: il metallo era ritorto e ripiegato verso l’esterno, come se qualcuno avesse scartato la stagnola di un cioccolatino.
«Sono in posizione. Attendo ordini.» Sussurrò Silvie al comunicatore.
«Ingaggio immediato! - Le rispose il sergente. – Ingaggio immediato! Elimina la minaccia! Thorpe e Kripke ti stanno raggiungendo, ma non possiamo permetterci il lusso di attendere: il materiale nella cabina è di vitale importanza, devi eliminare la minaccia prima che venga danneggiato l’equipaggiamento e le risorse umane!»
La innervosì il fatto che le “risorse umane” fossero state nominate solo per ultime, e quasi come parte del materiale importante. Ma non la stupì. Sganciò l’alabarda dalla cintura e la dispiegò. L’arma si allungò con una serie di clack e la lama iniziò a ronzare. Si assicurò di stringere nell’altra mano il fucile, anche se la scarsa visibilità l’avrebbe reso quasi inutile: la nebbia fumosa si era già infiltrata nella struttura e l’interno ne era saturo. Dalla foschia emergevano strumentazioni e cavi, mentre le lampade a led generavano aloni fastidiosi alla vista. Il visore a infrarossi evidenziò quattro corpi sul pavimento. Alcuni erano meno caldi di altri. Le dimensioni, tuttavia, non corrispondevano a quelle di un costellato. Una quinta figura più grande, ricurva su se stessa e dalla traccia inusuale si stagliava invece in fondo alla stanza. Quello era il bersaglio.

Silvie cercò di avvicinarsi il più silenziosamente possibile, ma non era facile. Cavi e arnesi di ogni tipo ricoprivano il pavimento. Ogni suo passo emetteva lievi scricchiolii che si sicuro il costellato era in grado di recepire, poiché in possesso di organi uditivi straordinariamente sensibili, come era stato confermato in altri contatti. Ma non si muoveva. Era come distratto, assorto, dedito a qualcosa. Sollevò il fucile e lo puntò in direzione della creatura. Per essere sicura di non mancarlo, avrebbe dovuto avvicinarsi ancora di più, ma se quel mostro avesse mosso anche solo una delle sue zampe toraciche, non avrebbe esitato a premere il grilletto. Con orrore, Silvie si rese conto che si stava cibando. Tra le zampe stringeva un arto umano, una gamba o un braccio, e lo addentava con le mandibole irte di denti simili ad aculei, strappando brandelli di carne calda che inghiottiva senza masticare. Figlio di puttana, pensò il soldato.
«Soldato Elendottir, qui soldato Kripke, mi ricevi?»
La trasmittente di Silvie spezzò il silenzio. La creatura ne percepì il rumore e stavolta ne fu allarmata. Gettò a terra quel che restava del suo pasto e si voltò verso di lei, per quanto “voltarsi” possa essere un’azione sensata, se applicata a una creatura che presenta ocelli globulari sparsi su tutto il corpo. Silvie fece fuoco. Una volta, poi ancora e ancora. Non aveva conferma di aver colpito qualcosa, e la nebbia ionizzata le mandò immediatamente in tilt il visore a infrarossi. Gettò a terra il fucile e si strappò dagli occhi il visore. Poi brandì con entrambe le mani l’alabarda. Colpita o meno, la creatura si spostava nella stanza colpendo apparecchiature e scaffali, rovesciando tavoli di roba e danneggiandone altra. Kripke, che era rimasto sulla soglia della struttura, fece fuoco a sua volta. Se non l’avesse fatto, la creatura probabilmente l’avrebbe assalito, ma se non fosse stato lì probabilmente sarebbe scappata tornando nella nebbia dalla quale era provenuta. Silvie si gettò a terra perché rischiava di essere colpita dal fuoco amico del collega. Qualcosa esplose, da qualche parte. Spirali di nebbia volteggiarono in aria e un paio di lampade a led lampeggiarono prima di spegnersi definitivamente.
«Kripke, non sparare! Ci sono io, nella cabina!»
«Cazzo, Elendottir! Dove sei?»
Qualcosa di grosso le scivolò di lato e Silvie non perse l’occasione di colpirlo. La creatura emise un verso a metà tra il barrito di un elefante e il sibilo di un grosso rettile, quindi si contorse sferrando artigliate a caso. Una di queste colpì l’arma di Silvie con tanta forza che il soldato, che la stringeva saldamente, fu sbalzato in mezzo alla stanza. Un rumore simile a quello di turbine che incrementano la rotazione colmò la stanza. Il costellato si era fulmineamente nascosto dietro alcuni grossi cilindri, colpendone altri mentre si raggomitolava nell’angolo.
«Elendottir, l’hai beccato? È venuto verso di te!»
«Non sparare, Kripke! Credo di averlo ferito! Ma non sparare, si è nascosto all’interno del po…» Non terminò la frase. Un bagliore le ferì gli occhi e lo spostamento d’aria la sbalzò in alto e lontano, oltre la metà della stanza. Durò pochi secondi, ma quando finalmente Silvie riuscì a riaprire gli occhi, si rese conto che tutta la nebbia nella stanza era stata risucchiata via. L’aria odorava di bruciato nel guardarsi le mani, Silvie si rese conto che ancora le girava la testa. Kripke la raggiunse. Con lui c’era anche Thorpe che subito le iniettò qualcosa, forse un antidolorifico, oppure un calmante.
«Dov’è il costellato? Dov’è?» Continuò a ripetere Silvie, mentre le accarezzavano i capelli dopo averle tolto l’elmetto.
«Non lo sappiamo. Ma non c’è più.» Le rispose Kripke.
«L’abbiamo ucciso?»
«Non lo sappiamo, te l’ho detto. È scomparso. Adesso non agitarti, sei ferita.»
«Non sono ferita.» Disse lei, poi sollevò il braccio per dare un’occhiata ai propri parametri vitali sullo schermo da polso. Battito cardiaco accelerato, ma niente traumi.
«Visto? Non sono ferita.»
«Non è quello, – le rispose Kripke mentre la squadra medica entrava nella struttura. – il sistema E.M.B.P. si è attivato. Per un attimo. Tu eri nei pressi del ponte, non c’era schermatura, forse sei stata vittima di un lag spazio-temporale.»
«Oh Cristo… – imprecò Silvie a denti stretti. – Dov’è il costellato? Dov’è?»
«Ti ho detto che non lo sappiamo! Calmati! …è scomparso. È scomparso.»

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