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Uscita da Pietrano e abbandonato il tratto illuminato dalla luce giallastra dei lampioni del comune, la Fiat Punto di Sandro proseguì per diversi chilometri sulla provinciale, che ben presto si rivelò molto più dissestata e malandata del previsto. Soprattutto dopo essersi tuffata tra gli alberi di una densa zona di bosco, la superficie dell’asfalto era spesso disseminata di buche, ondulata dalle radici e sul ciglio della strada si alternavano siepi di rovi e ripidi fossi. C’era da sperare che Sandro si mantenesse il più possibile al centro della carreggiata, anche invadendo leggermente l’altra corsia, perché scivolare inavvertitamente nella banchina sembrava estremamente pericoloso. Inoltre il fitto bosco che si estendeva a perdita d’occhio ai lati della strada era buio e permeato da una foschia immobile e lattiginosa, degna del peggior film horror.
«È per questo che mi trovo così a disagio con loro.» Concluse Mario, seduto in modo scomposto sul sedile posteriore.
«Non puoi fargliene una colpa, se ognuno di loro si è sistemato ed è felice.» Gli rispose Emma. Mario raddrizzò la schiena avvicinandosi all’amica, seduta sul sedile anteriore e intenta a scrutare il bosco dal finestrino.
«Ma ti senti? Ma che vuol dire “sistemato”? Come se prima fossero stati rotti, o se ci fosse qualcosa da aggiustare nelle loro vite.»
Sandro ascoltava in silenzio.
«Hanno trovato un lavoro, si sono sposati… o comunque si sono fatti una famiglia. Hanno una casa propria. Molte persone non ambiscono ad altro. A molti basta questo per essere felici.»
«Secondo me, non lo sono.»
«Non sono felici?»
«Certo che non lo sono. Mentono a se stessi. Devono raccontarsi che quello che vogliono è quello che hanno, quello che hanno raggiunto, ma in realtà non è vero. In realtà la maggior parte di loro non ha nemmeno voluto quello che si ritrova. È stato il caso. Per caso hanno trovato una persona che se li è presi… per caso un lavoro che...»
«Per caso o per fortuna.»
«È lo stesso. Quello che voglio dire è che non si sono mai detti “voglio questo dalla vita!” e di conseguenza non hanno mai lottato per ottenere quello che hanno. Si sono tenuti quello che la vita gli ha offerto. E poi hanno accettato quella come la propria realizzazione, la propria felicità.»
«Ora sei cattivo.» Gli disse Emma.
«Perché, credi veramente che Lorenzo volesse fare l’agente immobiliare? O che Francesca volesse fare la barista? Le faceva schifo quel lavoro, io lo so perché me lo raccontava lei stessa, a scuola. Ha iniziato così, lavorando d’estate nei locali, e alla fine quello è diventato il lavoro della sua vita.»
Mario tornò a schiacciarsi sullo schienale del sedile.
«Non dici nulla?» Chiese Emma a Sandro. Non che volesse distrarlo, anzi. Forse non avrebbe dovuto coinvolgerlo nella conversazione, ma era curiosa di conoscere l’opinione del suo ragazzo in proposito. Alla fin fine, Sandro lavorava come magazziniere nel mobilificio di suo padre, e lei non era riuscita ancora a trovare un lavoro degno di questo nome. Vendeva online bigiotteria artigianale, collane e orecchini che realizzava intrecciando fili di rame e pietre. Si sentiva chiamata in causa dalle accuse di Mario perché qualche giorno prima aveva accettato di sposare Sandro e il suo primo pensiero, in quell’occasione, non era andato a momenti magici di intimità o a qualche futura esperienza condivisa, bensì al fatto che suo marito non avrebbe mai avuto problemi di lavoro. Un giorno il padre si sarebbe ritirato e Sandro avrebbe portato avanti la tradizione lavorativa di famiglia, e lei sarebbe stata la moglie del proprietario di un rinomato mobilificio. Che poi a Emma non interessavano i soldi, né di farsi una carriera nel piccolo e angusto mercato dell’oreficeria artigianale, bensì la tranquillità. Il divano, un gatto, Netflix. Non aspirava a nulla di più, e sperava che sposando Sandro avrebbe potuto continuare a intrecciare rame su pietre dure per il resto della vita, per hobby, senza reale necessità di guadagnarci qualcosa. Certo a chiunque le avesse chiesto “cosa fai nella vita?” avrebbe detto “creo gioielleria artigianale”, e non “la mantenuta”. Ma nemmeno avrebbe dovuto rispondere “la casalinga” o peggio ancora “la madre”. Intrecciare rame e pietre dure, insomma, le garantiva la dignità di un lavoro, persino di un’occupazione artistica, senza che fosse necessario pagarci le bollette o il mutuo di casa. Perché per quello sarebbero bastati gli introiti del suo futuro marito.
«Non ho nulla da dire.» Pigolò Sandro.
«Ed ecco perché mi dà così fastidio partecipare a queste serate… queste rimpatriate… queste cene nostalgiche – Riprese Mario. – Perché mi sembra di essere l’unico che non si è arreso, che ha continuato a lottare affinché la sua vita fosse un minimo significativa, anziché abbandonarsi a… all’eterno quotidiano!»
«Ma non capisci quanto sei presuntuoso? – Lo rimproverò Emma, girandosi verso di lui quanto la cintura di sicurezza le permetteva. – Giudichi la felicità degli altri con il metro della tua! C’era gente realizzata, a questa cena! Ho visto persone soddisfatte della loro vita almeno quanto tu sei soddisfatto di… di quello che hai tu, che in confronto non è niente! È un tendere all’infinito a qualcosa di meglio senza mai guardare al presente!»
«Certo, perché è al futuro che bisogna guardare!»
«Il tuo futuro è adesso, cazzo! Hai trentaquattro anni, Mario, quando cazzo la smetterai di pensare a quello che vuoi diventare “da grande”? Voglio darti una notizia: sei già “grande”! E non combinerai mai niente nella vita se non…»

Sandro non riuscì nemmeno a gridare. Una nube scura investì l’auto e all’istante tutti i vetri dell’automobile si ricoprirono di ghiaccio, come se si fossero gettati contro una foschia talmente fredda da essere composta di brina. Ma non era una foschia gelida: era un fumo grigio e densa che avvolse l’automobile completamente, oscurando in una frazione di secondo la luce del sole. Lo stridio dei freni, unito al vibrare del veicolo che slittava lungo l’asfalto, paralizzò sia Emma che Mario. La prima sentì la cintura comprimerle la cassa toracica fino a spezzarle il costato, il secondo si ribaltò in avanti finendo con la testa contro il sedile di Sadro e con le gambe accartocciate in basso. Gli airbag non esplosero perché la Punto non impattò contro nulla. Scivolò consumando gli pneumatici e ruotando su se stessa fino a che non si fermò del tutto, e a quel punto brontolò sussultando mentre il motore si spegneva. Sandro temette di essersi slogato un polso contro il volante, ma quando tentò di voltarsi per controllare Emma, un dolore improvviso alla base della nuca e un capogiro lo costrinsero a tenere gli occhi chiusi e respirare forte, al fine di non vomitare.
«Sta… te… bene?» Balbettò.
Mario emise un gemito. Emma gli toccò la spalla con la mano sinistra.
«Mi fa male qui sul fianco.» Gli rispose.
«A me fa male il naso. E c’è un mare di sangue. Credo sia il mio naso.» Disse Mario.
Restarono in silenzio e immobili per diversi minuti, ascoltando il proprio respiro e cercando di riprendere cognizione di se stessi. Lentamente ognuno di loro passò in rassegna le proprie mani, le proprie gambe, la propria faccia. Erano ammaccati e doloranti, ma nulla di grave. A parte il naso di Mario (che forse era rotto) e le costole di Emma (forse non rotte, ma di certo un grosso ematoma l’avrebbe segnata per giorni).
«Che è successo?» Chiese Mario.
«È come se… avessimo… non lo so…» Cercò di spiegare Sandro.
«Cosa? Abbiamo investito qualcosa?» Lo incalzò l’amico.
«No… cioè… forse…»
«Abbiamo investito qualcosa o no?»
«No! Non abbiamo investito niente! – si intromise Emma. – Non c’è stato alcun… boato! Non ve ne siete resi conto? Non abbiamo colpito nulla!»
«No, no… infatti. – Riprese Sandro. – Ma è come se… guardate… che è successo?»
Sandro stava indicando il finestrino sul suo lato. Il ghiaccio lo ricopriva ancora interamente. Inoltre, e tutti e tre se ne accorsero solo in quel momento, il loro respiro condensava in nuvole di vapore proprio come accade quando la temperatura è molto bassa.
«Santo cielo… – Mormorò Emma. – Fa freddo.»
Era un osservazione banale, ma per l’appunto nessuno dei tre aveva fatto caso a quanto la temperatura fosse scesa. E di colpo.
«Non riesco a capire cosa diavolo è successo, vado a controllare.» Disse Sandro, e slacciò la cintura. Emma stava passando dei fazzoletti di carta a Mario, che continuava a sanguinare dal naso. Rivolse uno sguardo preoccupato verso il ragazzo, ma non lo fermò. A dire il vero, cercare di capire meglio quale fosse la situazione non era una cattiva idea, anzi sarebbe uscita lei stessa a controllare, se non avesse deciso di farlo Sandro.
La portiera si aprì scricchiolando. Nulla di strano, la Punto era vecchia, Sandro non aveva mai oliato gli sportelli. Scricchiolavano in quel modo sinistro da anni. Fu uno scricchiolio sinistro ma in un certo senso confortante. E altrettanto confortante fu quando appoggiò il piede sinistro a terra e si alzò in piedi. Confortante per diversi motivi: in primo luogo perché erano sulla strada, ovvero su un terreno stabile; in secondo luogo perché sollevandosi in piedi Sandro constatò che per quanto dolorante, era ancora tutto d’un pezzo; infine si rese conto che il mondo esterno esisteva ancora, e questa forse era la cosa più confortante. Attraverso una foschia densa e fumosa riusciva a vedere i rami degli alberi appena oltre la cunetta, e notò foglie sull’asfalto e un guardrail sgangherato che emergeva dall’oscurità. Tuttavia non gli fu possibile vedere null’altro, perché qualsiasi cosa finiva inghiottita da quella bruma grigia a pochi passi in ogni direzione. Nemmeno i fari ancora accesi della Punto riuscivano a fendere quel fumo grigio e freddo: la luce in parte veniva riflessa si disperdeva attorno alla vettura e ai suoi tre occupanti generando l’illusione di essere all’interno di una vera e propria bolla sferica, oltre la quale il mondo si era dissolto.
«Sandro, rientra per favore! Fa freddo. Andiamo via.» Gli chiese Emma.
Sandro tornò a sedersi sul sedile dell’auto, quindi richiuse lo sportello. Delicatamente.
«Scusate, – disse, – è stata colpa mia. Questo banco di nebbia è apparso… cioè l’ho visto solo all’ultimo… e mi sono spaventato, e ho inchiodato. Non avrei dovuto. Scusate.»
«Ma è normale? – Domandò Mario. – Cioè… che cazzo di nebbia è? Il cielo era pulito quando siamo usciti dal ristorante, si vedevano persino le stelle.»
«È il bosco. – Spiegò Emma. – Probabilmente la vegetazione ha creato una zona di ombra nella quale si è condensata l’umidità… o qualcosa del genere. Insomma deve essere un fenomeno locale.»
Mario raccolse il cellulare da sotto il sedile, dove era finito. Lo sbloccò e inviò un messaggio alla sua ragazza. Le scrisse “ho avuto un contrattempo, ma sto tornando”. Non voleva che si preoccupasse.
«Vabbé… ce ne andiamo adesso?» Fece, con tono ironico.
Sandro non se lo fece ripetere. Girò la chiave e il motore ripartì.
«Meno male, temevo che si fosse ingolfato.» Sussurrò.
Emma aveva appena appoggiato la testa sul finestrino. Sentiva l’adrenalina abbandonarle il corpo, e la stanchezza tornare alla ribalta. Il dolore al costato era l’unica cosa che le avrebbe impedito di addormentarsi nel tempo che avrebbero impiegato a tornare a casa. Poi il vetro le esplose in faccia. Due braccia enormi, muscolose e nere le afferrarono la testa e la strattonarono all’esterno. Il collo si spezzò in un attimo con uno schiocco e quella di gridare restò solo un’intenzione perché le braccia nere le torsero la testa con tanta violenza che prima di morire riuscì a guardare negli occhi Mario. Infine il corpo senza vita di Emma fu trascinato fuori attraverso il finestrino, assieme a parte della cintura di sicurezza che lo tratteneva, la quale si riavvolse con un sibilo e un tonfo sordo mentre l’automobile continuava a oscillare vigorosamente. Sandro e Mario non emisero un gemito. Entrambi erano rimasti paralizzati dal terrore. Mario sgranò gli occhi notando la cintura di sicurezza strappata e parte dello sportello piegato. Un brandello del vestito di Emma era rimasto impigliato tra le lamiere ammaccate e svolazzava protendendosi verso la nebbia grigia. Sandro tolse il piede dalla frizione e il motore dell’auto sussultò, spegnendosi di nuovo. Aveva visto quella creatura, l’aveva vista abbastanza bene. Non somigliava a niente di ciò che aveva visto in vita sua, né di persona né in quei documentari sulla natura su Netflix che a lui e Emma piaceva guardare quando ci si attardava a cenare. Era un mostro di qualche film di fantascienza. Un alieno, o una mutazione. Nero come il cielo notturno e con il corpo coperto di stelle. Ma a differenza del cielo notturno aveva anche denti affilati, aguzzi e fitti, disposti in una bocca senza labbra a formare un sorriso inquietante. Dopo aver preso Emma si era allontanato velocemente, scomparendo nel fumo denso. A quel punto Mario urlò. E urlò anche Sandro.

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