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«Perché dovrebbe esserci un’uscita?» Chiese la ragazza in piedi, raccogliendo l’ascia da terra. L’altra donna, quella a terra, aveva il petto squarciato e il sangue sgorgava dal suo corpo a getti intermittenti. Non sarebbe rimasta cosciente ancora per molto. Di sicuro non era in grado di parlare. I colpi che Dela le aveva inferto erano più che mortali. Colpi decisi, violenti, scagliati con rabbia e con forza. «Perché dovrebbe esserci una vincitrice?» Chiese ancora. L’altra donna, al culmine di un violento spasmo, smise improvvisamente di muoversi.

Dela socchiuse gli occhi e inspirò profondamente. Riportò alla mente una preghiera, una di quelle alle quali non ricorreva molto spesso. Un addio allo spirito. La sua quarta vittima era sulla quarantina, braccia grosse, spalle larghe. Sicuramente più forte di lei. Se non l’avesse colta di sorpresa, probabilmente sarebbe stata Dela ad avere la peggio, e adesso si sarebbe ritrovata ad affogare nel proprio sangue. Allontanò lo sguardo da quegli occhi spalancati e privi di vita, come se la morte si potesse trasmettere attraverso la luce che si allontana dalle pupille dei cadaveri. C’era una leggenda che diceva proprio così, l’aveva ascoltata una volta, da suo padre, e le era rimasta impressa. Un brivido la percorse. Drizzando la testa notò in un angolo una alcova per niente nascosta. C’erano delle vesti di ricambio piegate una sull’altra, degli scudi di legno, altre asce, alcune brocche con dell’acqua fresca. Forse era stata la vista di quel piccolo punto di ristoro che aveva distratto l’altra donna. Dela si avvicinò, guardinga. Nessuno alle sue spalle, né lungo le due sezioni di corridoio del labirinto, fin dove il suo sguardo e la luce delle fiaccole arrivava. Poggiò a terra l’ascia che teneva in mano, ancora grondante di sangue. Rapidamente si tolse di dosso la tunica di lino completamente rossa e la gettò a terra, quasi con ribrezzo. Puzzava di morte. La tunica, ma anche lei stessa. Si fermò ad osservare il proprio corpo nudo: il sangue delle altre ragazze che aveva ucciso si era raccolto e seccato formando croste e striature nere nelle giunture delle braccia, sul volto, sul collo, sulle gambe. Le mani erano rosse, completamente rosse. A malapena riusciva a distinguere i tatuaggi che le segnavano i polsi e che avrebbero dovuto essere di buon auspicio. Forse funzionavano davvero, dopotutto era ancora viva. Si gettò addosso un po’ d’acqua e cercò di raschiare via il sangue secco dalla pelle, e quello ancora fresco dalle mani e dalle gambe. Sotto i suoi piedi si formò una pozza color ruggine. Bevve qualche sorso dalle brocche, poi prese a calci le altre, rompendole e rovesciandole. Nessun’altra avrebbe potuto abbeverarsi lì. Indossò una tunica pulita, raccolse uno scudo non scheggiato e impugnò un’ascia dalla lama lucida, abbandonando quella che aveva utilizzato finora. In cuor suo sperava che le altre detenute gettate nel labirinto si fossero già uccise da sole, combattendo le une contro le altre. Con un po’ di fortuna, per sopravvivere a quel gioco crudele avrebbe dovuto ucciderne soltanto un’altra. L’altra rimasta viva, l’altra che aveva eliminato tutte le restanti tranne lei.

«Perché… dovrebbe esserci… vincitrice?» Le domandò una voce oltre la parete alle sue spalle. Erano parole pronunciare con un accento strano, ma si trattava della stessa domanda che Dela aveva rivolto pochi minuti prima alla sua vittima. Chiunque avesse parlato, era rimasta nascosta dietro a quel muro per tutto il tempo. Non aveva approfittato della distrazione di Dela nemmeno mentre questa si spogliava o si lavava. Certo, quell’esitare non doveva per forza essere interpretato come una gentilezza. Forse si trattava di insicurezza, o di paura. Dela comunque si voltò sollevando l’arma e lo scudo. L’altra si era già fatta avanti, spostandosi al centro del passaggio, in piena vista.
«Perché mantenere la promessa di reintegrare la vincitrice?» Chiese Dela, replicando alla propria domanda con un’altra domanda. In verità la sua intenzione era comunicare alla sua nuova avversaria che la pensava allo stesso modo. Non le avrebbero perdonate, non le avrebbero graziate e non avrebbero mantenuto alcuna promessa. Gettare le detenute in un labirinto e lasciare che si uccidessero l’un l’altra era una soluzione antichissima al problema dello sbarazzarsi dei prigionieri. In qualche modo l’uomo applicava questa soluzione da migliaia di anni, forse prima ancora di elaborare un linguaggio o di scoprire il fuoco. L’uomo, appunto. Il loro crimine era quello di non essere state al loro posto, di aver sfidato l’autorità, di aver osato spostarsi “a fianco” anziché restare “alle spalle”, di aver reagito, di aver alzato la voce. L’autorità protegge se stessa, da sempre. L’autorità non tollera che la si minacci. Ecco perché erano tutte finite nel labirinto.
«Non voglio ucciderti.» Aggiunse Dela, indietreggiando.
Da un passaggio nella parete di fronte, si sporse un’altra detenuta come lei. Carnagione chiara, capelli corvini, occhi scuri, labbra rosa. La sua tunica era lorda, impastata di fango e di sangue, così come il suo volto. Il fango rossastro le formava dei grumi secchi sulla fronte spaziosa. Dela non era in grado di capire se fosse ferita o meno. Lo sguardo, comunque, era minaccioso. Disse qualcosa, in una lingua che Dela non comprendeva del tutto. Era la lingua di sua nonna, un dialetto del profondo nord. La donna ripeté la frase, quasi gridando. Dela capì molto più dal tono frustrato della sua voce, roca e spezzata, che dalle parole che aveva pronunciato. Non vedeva alternative. Se non avessero combattuto, sarebbero state uccise. Così avevano detto, queste erano le regole. Nessuna alleanza, una sola vincitrice.
«Non è vero! Non è vero che dobbiamo combattere per forza!» – Disse Dela. – Guarda! Guarda quello che faccio io!»
Dela si inginocchiò, molto lentamente. La ragazza di fronte a lei impugnava un’ascia già coperta di molto sangue e uno scudo screziato da schizzi rossi. Digrignava i denti, era colma di rabbia. Forse era proprio in quella rabbia che aveva trovato le forze di abbattere le altre detenute che aveva incontrato. Se avesse voluto, la ragazza dai capelli corvini avrebbe potuto raggiungerla, colpirla e ucciderla, ora che Dela si era inginocchiata. Ma Dela fece di più: appoggiò la propria ascia a terra, davanti a sé. Ora era disarmata.
«Lo so, – riprese Dela, – se non ci uccidiamo verranno a ucciderci. Faranno entrare nel labirinto i boia. Ci verranno a cercare e chiuderanno la faccenda. Ma è proprio quello che sperano di NON dover fare, capisci? Ci liberano nel labirinto affinché noi stesse provvediamo a farci fuori. Non vogliono sporcarsi le mani. O forse sì, un boia se le sporcherà, ma solo uno di loro, e solo con l’ultima di noi, quella che avrà già ammazzato tutte le altre.»
Dela fece una pausa, deglutì. La ragazza dai capelli corvini stava piangendo. Le lacrime le rigavano il volto, scendendo sulle gote, scostando il sangue rappreso. Cercava di non singhiozzare né di chiudere gli occhi, che ormai erano oltremodo lucidi. Forse non aveva capito nulla di quello che Dela le stava dicendo, ma di certo nemmeno lei avrebbe voluto uccidere ancora un’altra sconosciuta, un’altra donna con la quale condivideva l’orgoglio.
«Combattiamo insieme. Non l’una contro l’altra. Insieme. – Spiegò Dela, gesticolando in modo esagerato, affinché l’altra capisse cosa intendeva. – Loro verranno a prenderci, verranno a ucciderci… saranno tanti, saranno più forti di noi e meglio armati… loro ci uccideranno. Ma saranno LORO a farlo. E noi cercheremo di rendergli la cosa più difficile possibile. Perché aiutarli? Perché obbedire? …poniamoci ancora una volta di fronte al sistema, boicottiamolo con tutta la forza che ci resta. Ci frantumerà, ci distruggerà, ci ridurrà in polvere… ma non importa. Anche se sarà inutile, sarà la cosa giusta. È questo che conta. Che sia la cosa giusta.»

La ragazza dai capelli corvini si morse le labbra, poi abbassò l’arma. Barcollò per qualche secondo, poi cadde anche lei a terra, pesantemente. Ora entrambe erano sedute, una di fronte all’altra, nel silenzio assoluto di quel labirinto che non era altro che un’arena nella quale venivano liberate le leonesse, affinché si sbranassero a vicenda.
«C’è… altre…» Balbettò la ragazza dai capelli corvini.
«Cosa? Come?» Domandò Dela, che aveva compreso ma che voleva esserne sicura.
«C’è… altre… – ripeté, – ho ucciso… tre… era… più… era undici… forse dodici.»
«Sì… eravamo dodici. Ne liberano sempre una dozzina. Non so perché, ma sono sempre dodici ragazze ad ogni ciclo del labirinto. Ne hai uccise tre? Io ne ho uccise… quattro.»
Dela cercò di chiarire la cosa con dei gesti, poi disegnando sul terriccio del labirinto.
«Tu… tre. Io… quattro. Totale: sette. Più noi due. Nove.»
«C’è altre.»
«Sì, ci sono altre. Altre tre… se non si sono ammazzate fra loro.»
Dela sorrise. Era da tanto che non sorrideva. Sentì la pelle del volto tendersi, come se quell’espressione non fosse più una consuetudine, come se i muscoli della sua faccia non sapessero quasi più come fare.
«Come ti chiami?» Chiese Dela. L’altra ragazza capì. Conosceva poco della lingua di Dela, ma abbastanza da capire le sentenze più semplici, a quanto pareva.
«Nimue.»
«Io sono Dela. Nimue. Dela. Ascoltami, Nimue… dobbiamo cercare le altre. E poi… NON ucciderle. Non ucciderle, capisci?»
Dela indicò le armi e scosse la testa. Lo ripeté. Cercò di essere più chiara possibile.
«Dobbiamo parlare. Come abbiamo fatto io e te. Parlare, anche se è difficile. Anche se riusciamo a malapena a capirci. Anche se probabilmente ci hanno selezionate affinché sia difficile per noi farlo, forse nessuna di noi proviene dallo stesso posto o parla la stessa lingua. Non importa. Ci hanno detto che parlare è inutile, che dobbiamo combattere, scontrarci, ucciderci. Invece no, non è così: parlare è utile. Parlare è l’unica cosa che ha senso fare, per noi. Comunicare, cercare di capirci. Non combattere.»
Sembrava che Nimue capisse. Forse un brandello di discorso ogni tanto, forse una parola o due. Forse riusciva a farsi un’idea di quello che stava dicendo Dela solo in linea generale, ma a Dela andava benissimo così. “In linea generale” andava bene, era perfetto.
Si alzarono entrambe in piedi. Cautamente raccolsero le proprie armi. Non c’era più timore. La tensione si era dissolta. Entrambe erano stanche persino di fingere, di sospettare che l’altra potesse non essere sincera. Accolsero l’idea della reciproca fiducia con naturalezza e si sentirono leggere, come se un enorme peso sulle loro spalle fosse di colpo scivolato via. Nimue abbracciò Dela. Dela strinse Nimue. Restarono abbracciate per diversi secondi, finché non udirono un riecheggiare di grida che proveniva da lontano, da uno dei corridoi più scuri.
«Loro… perché non colpire? Perché non uccidere due noi?» Mormorò Nimue.
«Io non lo so, – le rispose Dela. – So solo che chiunque pensi di non avere scelta, obbedirà.»
E detto questo avanzò in direzione delle grida, con lo scudo alto davanti. Nimue la seguì in silenzio.

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