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Harold MacBriggs era stato sei volte nello spazio: due volte in missioni scientifiche presso la stazione internazionale, altre quattro come pilota di veicoli spaziali extra-orbitali. Si era congedato dalla Marina Spaziale con tutti gli onori, e aveva ricevuto in regalo dall’ESA anche un kit di matite con grafite ricavata dai minerali recuperati presso gli anelli di Saturno. Neanche sei mesi dopo aveva ricevuto un’email dalla Duchamp Advanced Technologies, un’azienda francese all’avanguardia nella progettazione di apparecchiature mediche: «Abbiamo bisogno di lei, Mac Briggs. Abbiamo bisogno del miglior trivellatore spaziale vivente.»
Lusingato e incuriosito, Harold non aveva atteso molto prima di salutare sua madre, la badante di sua madre e partire per la Francia. I laboratori della DAT si sviluppavano nel sottosuolo di un’ampia zona industriale presso la periferia di Parigi. Harold fu accolto con tutti gli onori: venne a stringergli la mano e a dargli il benvenuto nientemeno che il fondatore del DAT, Stanis Emmanuel Duchamp.
«Siamo orgogliosi di averla qui.» Disse, in un inglese dall’elegante inflessione parigina.
«Non vedo l’ora di scoprire di cosa si tratta!» Rispose con entusiasmo Harold. Aveva tutta l’intenzione di accettare l’incarico, qualsiasi esso fosse. Era troppo presto per andarsene in pensione.

Nei dieci mesi successivi, Harold MacBriggs dovette sottoporti a centinaia di test e allenarsi duramente per quella che sarebbe stata la missione più importante della sua vita. E dire che lui era l’astronauta che per primo aveva messo piede su un asteroide della fascia! Lui era stato il primo a riportare sulla terra frammenti del ghiaccio degli anelli di Saturno! Lui aveva trivellato la superficie di Europa fino a raggiungerne gli oceani sotterranei! Ma nulla lo aveva preparato all’incredibile impresa che stava per affrontare. Le ultime simulazioni davano una percentuale di successo superiore al 99%, e la Duchamp era impaziente di mettere al corrente il mondo. Decisero quindi di fissare il giorno della missione per il mese successivo: 16 Luglio 2069. Harold trascorse il mese lontano dalle telecamere, declinando inviti a Talk Show e rifiutando di lasciare interviste. L’ufficio stampa della DAT si occupò dei comunicati e distillò le informazioni con oculata parsimonia, alimentando curiosità e generando un crescente interesse attorno alla misteriosa operazione. Inaspettatamente, poche ore prima dell’inizio della missione, MacBriggs fu raggiunto da una terribile notizia: un lutto che lo mise a dura prova. La badante di sua madre era morta. Trascorse tutto il tempo che gli restava prima del grande evento tenendo video-colloqui con aspiranti badanti, finché non trovò quella giusta, appena un’ora prima di essere accompagnato presso la camera di miniaturizzazione.

La trivellatrice che nei mesi precedenti aveva imparato a manovrare alla perfezione lo stava attendendo all’interno della sfera del macchinario fantascientifico che avrebbe dovuto ridurlo alle dimensioni di un granello di polvere. Un ronzio continuo e neutro permeava l’aria attorno al veicolo rendendola immobile. Harold sapeva che una volta sigillato il portello a cupola della trivellatrice, nella sfera sarebbe stato creato il vuoto. Pochi istanti dopo le sue molecole sarebbero state compresse, o per meglio dire “ricalibrate tridimensionalmente” fino a scomparire all’occhio umano. La microcapsula nella quale sarebbe finito era già stata posizionata sotto la trivellatrice. Un micro-tuffo in una goccia di soluzione fisiologica, per poi essere trasferito in una fiala e poi inoculato nel corpo del paziente X.
«Come si sente, Harold?» Gli chiese una voce familiare. Si trattava della dottoressa Christine Chamoise, direttrice della sezione medico-scientifica.
«Andiamo a salvare una vita.» Le rispose Harold, dandosi coraggio. Si sedette all’interno dell’angusto abitacolo e chiuse la calotta di cristallo. Era ironico: stavano per miniaturizzarlo e in quella cabina non c’era spazio. Problemi di spazio prima di una miniaturizzazione. Si lasciò sfuggire un sorriso forzato mentre le sue dita andavano a stringere la cloche di comando. Percepì l’apertura delle valvole e la pressurizzazione dell’ambiente.
«Conto alla rovescia silenzioso… iniziato.» Disse la Chamoise. Poi lo ripeté in francese. In quella decina di secondi Harold non vide né numeri né luci lampeggianti. Tutto gli sembrò gelarsi, ogni secondo ne durava dieci. Deglutì e la saliva gli restò in gola. Non gli piaceva essere nervoso, si era addestrato anni per affrontare lo stress di quei momenti. Ma era anche vero che nessun essere umano aveva mai fatto nulla del genere. Topi, sì. Ne avevano miniaturizzati diversi. E anche cani, due o tre. Ma era il primo essere umano. Di nuovo il primo essere umano.

Dieci mesi dopo Enrique Lambert fu dimesso dalla clinica sperimentale della Duchamp in quanto completamente guarito. Soffriva di calcoli alla cistifellea, nell’uretra, e rischiava una trombosi per accumuli di grasso nei condotti arteriosi e venosi peri-cardiaci. Tutto svanito. Non solo, in quei dieci mesi aveva anche perso 40 chili e si era fidanzato con una delle sue infermiere. Questi ultimi due eventi, ovviamente, non avevano nulla a che fare con l’esperimento di miniaturizzazione che aveva coinvolto Harold MacBriggs. Harold era stato iniettato nel corpo di Enrique e in quei mesi aveva lavorato con solerzia disgregando depositi di calcio, accumuli di colesterolo, granuli pericolosi all’interno di tutti gli organi compromessi. Poteva comunicare con l’equipe scientifica solo in poche occasioni, e cioè quando gli strumenti di ricezione venivano calibrati per raggiungerlo, ovunque si trovasse, nel corpo del signor Lambert. Al buio e immerso nei liquidi fisiologici, praticando micro-lacerazioni e attraversando con attenzione tessuti e apparati, aveva portato a termine la sua missione. La trivellatrice fu raccolta in un campione di feci del signor Enrique e una volta riportata alle dimensioni reali fu deciso di non diffondere le immagini. Nonostante la sterilizzazione e le procedure di recupero, né la trivellatrice né Harold avevano un aspetto da prima pagina. D’altronde trascorrere dieci mesi in una cabina, mangiando cibo liofilizzato e muovendosi pochissimo, avevano davvero messo alla prova le capacità psico-fisiche di MacBriggs, che a malapena riusciva a reggersi in piedi. Lo attendeva un lungo periodo di riabilitazione. Ma nel frattempo l’intero pianeta aveva seguito l’impresa e McBriggs poteva certamente dire di essere entrato di nuovo nella storia.
«È stato un piccolo passo per l’uomo… certamente un piccolissimo passo. Da qualche parte. Viva l’umanità.» Aveva detto alle telecamere, nel suo letto nella clinica della DAT, il giorno successivo al ritorno dalla missione.
«Il signor McBriggs ha bisogno di riposo, adesso. – Disse la Chamois ai giornalisti presenti. - Mais vous pouvez poser toutes les questions que vous voulez à M. Duchamp lui-même. Par ici.»
Harold restò solo, nella sua stanza. C’era tantissimo spazio. Una stanza enorme, tutta per sé. La televisione accesa trasmetteva un notiziario, e la sua faccia comparve sullo schermo. Dicevano che sebbene la miniaturizzazione fosse una tecnologia incredibile, c’erano ancora molte perplessità sul suo utilizzo. Soprattutto dilemmi etici, sulla miniaturizzazione di esseri umani, benché consenzienti. Si sperava, in futuro, di poterla applicare solo a robot comandati a distanza, cosa che al momento non era possibile a causa dei problemi di comunicazione tra materia miniaturizzata e realtà non compressa. Harold osservò il proprio volto in televisione. Non ricordava di avere quella faccia. Non ricordava quegli occhi. Si sentì un po’ come quelle cagnette russe sparate in orbita nel XX secolo, con la differenza che lui non era stato abbandonato lì. Insomma, c’era una bella differenza. Oppure no?

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