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Quando attraversai la soglia dell’undicesimo giardino, mi ritrovai in una sorta di serra tropicale. Faceva caldo, l’umidità era quasi palpabile, l’odore di muschio, felci, spore e terra bagnata saturava l’aria. Piccole e invisibili ragnatele fluttuanti mi scivolarono sul volto, costringendomi ad agitare le mani davanti agli occhi per disperderle. C’era rumore di acqua scrosciante, forse un ruscello poco distante. La luce del sole, calda persino nel colore, trapelava tra le fronde degli alberi disegnando mappe strane sulle piante a foglia larga del sottobosco. I raggi di sole davano visibilità al pulviscolo fluttuante e ai piccoli insetti che sciamavano a varie altezza.

«Claudio?»
Sentii pronunciare il mio nome da una voce familiare, ma prima di vederlo con i miei occhi pensai che si trattasse di un eco della memoria, di un’allucinazione auditiva. Invece era lì, con indosso dei pantaloncini corti color cachi e una camicia a maniche corte sbottonata. Ai piedi degli stivali di gomma, con i quali l’avevo visto spesso girare per l’aia di casa della nonna, a spargere granaglie per le galline. Le mie scarpe erano tutte infangate.

«Claudio, non stare lì impalato. Dammi una mano a raccogliere il miele.»
Era mio padre, ma almeno trent’anni più giovane. Il suo volto era radioso, terso, ripulito dalla stanchezza e dalla vecchiaia. Le sue braccia erano toniche, asciutte. La pelle appena abbronzata dal sole. Le gambe secche e nodose. La barba incolta, i capelli curati. Mi chiesi come potesse riconoscermi. Anche io ero diverso. Dovevo dimostrare ben più dei suoi anni, a questo punto. Mi guardai le mani: le dita erano grinzose e sul dorso erano cosparse di peli neri e di macchie scure. Non avevo idea del mio aspetto in volto, ma non ero di sicuro il ragazzino che era abituato a chiamare “Claudio” all’età che dimostrava adesso.

«Guarda lassù.» Mi disse. «Le vedi quelle grosse protuberanze piatte e giallognole?»
«Sembrano grossi pancake.» Dissi. Non so perché lo dissi.
«Eheh. In un certo senso lo sono. È un favo, e trabocca di miele. Guarda le formiche ai tuoi piedi.»
Abbassai lo sguardo. Stavo calpestando un tappeto di insetti che si accalcavano, sovrapponendosi, alle gocce di miele che cadevano dall’alto. Migliaia di formiche e di altri insetti. Avevano già quasi coperto le mie scarpe.
«Claudio!» Mi chiamò ancora lui.
«Gli insetti… stanno risalendo sulla mia gamba…»
«Lascia stare gli insetti, figliolo. Non ti fanno niente. Aiutami a staccare una canna abbastanza lunga, forse riusciamo a prendere un po’ di quel miele…»
«Ma le api…»
«Ne hanno tanto. Non si arrabbieranno troppo, se facciamo con attenzione.»

Alle mie spalle comparve una porta luminosa. L’accesso al dodicesimo giardino. Erano già trascorsi dieci minuti. Ne avevo altri cinque prima che l’accesso si chiudesse.
«Papà, ascolta… perché non ci sediamo e parliamo un po’?»
Il suo volto si rabbuiò in un istante.
«C’è qualcosa che non va? Hai litigato con tua madre?»
«No, no… nulla del genere. È che… tutto questo è meraviglioso, ma ancora non ho avuto modo di dirti quello che volevo dirti sin da quando ho attraversato il varco del primo giardino.»
Quello che avevo appena detto per lui non aveva alcun senso. Ma in qualche modo sorvolò sulle mie parole, si avvicinò a un grosso ramo quasi orizzontale che si protendeva su un cumulo di pietre, e dopo averlo spolverato con un paio di veloci passate di mano, si sedette. Una lucertola, infastidita, corse a nascondersi tra i sassi e le radici.
«Dimmi. Ti ascolto.»
Le formiche iniziavano a mordermi le gambe. Erano salite fin sopra i calzini. Probabilmente molte si erano infilate nelle scarpe, e quel pensiero mi distraeva. Ma sapevo che il dodicesimo giardino sarebbe stato l’ultimo, e non sapevo in che condizioni sarei comparso, o in quali avrei trovato mio padre. La distorsione spazio-temporale bilaterale mi avrebbe probabilmente invecchiato di un’altra manciata di anni, mentre mio padre mi sarebbe apparso ancora di qualche anno più giovane. Però la serra avrebbe potuto trasformarsi in un fiume in piena, o in un temporale nel pieno della notte, oppure potevamo ritrovarci nel traffico del centro di Ferrara. Gli avevo chiesto dei suoi ricordi migliori, della mamma, delle estati sulla riviera, dei pranzi con tutti i parenti quando arrivava la domenica, delle scampagnate sulle colline, dei suoi altri amori giovanili. Ma io non ero stato in grado di dirgli ancora nulla.

«Nei pomeriggi più caldi, capitava spesso che mi trovassi in camera, a leggere, a scrivere, o a giocare con i videogames. Mi dicevi sempre che quello che facevo era una perdita di tempo, e che avrei dovuto trascorrere più tempo al mare, come avevi fatto tu da ragazzo. Nuotare, sdraiarmi al sole, giocare con gli amici, passeggiare lungo il bagnasciuga. Assaporare l’aria di mare, gli odori, la carezza del sole. Ti ricordi?»
«Sono le cose più belle che ricordo. – Mi disse lui, grattandosi il mento. – Quando cammino sulla spiaggia, al tramonto, con la brezza che mi asciuga le gambe e l’acqua delle onde che mi lambisce le caviglie. I piedi che affondano nella sabbia. Il sole che si fa ogni minuto più rosso.»
«Io ti dicevo che non erano quelle le cose belle, per me. Non erano i miei luoghi, i miei momenti, la mia felicità. Che per ognuno di noi è diverso, e che non dovevi rammaricarti se io non apprezzavo le stesse cose che tu adoravi.»
«Mi dispiaceva che mio figlio non capisse quanta gioia mi davano quelle esperienze.»
«Lo so.»
«Non ho mai capito i videogames.»
«Lo so.»
La porta di luce iniziò a cambiare colore. Lentamente sarebbe passata dal bianco intenso al giallo, e poi avrebbe virato sul rosso. Infine, sarebbe scomparsa. Se non fossi entrato nella porta entro qualche minuto, la mia esperienza nella serra sarebbe terminata prematuramente, e anche se ormai mi mancava un solo spostamento, non volevo perdermelo.

«Ci tenevo a dirti una cosa, poi devo andare.»
Mi ascoltava in silenzio.
«Che non è vero che quelli non sono i miei luoghi, i miei momenti, la mia felicità. Forse non lo erano quando avevo quattordici o quindici anni, ma lo sarebbero divenuti. Tu avevi quasi quarant’anni, eri proprio… così, come sei ora. E io non sapevo che alla tua età avrei capito di somigliarti tanto. Non lo sapevo, e non potevo immaginarlo. Perché ero solo un ragazzino. Non concepivo l’idea che alla mia età anche tu potessi essere diverso, e di conseguenza nemmeno quella che alla tua io potessi arrivare a comprendere le cose di cui mi parlavi. Ad apprezzarle. Ad amarle.»
La porta divenne rossa. Iniziò a brillare meno intensamente, i bagliori si fecero tremolanti. Mi alzai in piedi, e lo stesso fece anche lui, non capendo dove stessi andando.
«Avevi ragione, papà. Sono i ricordi più belli.»

Mi avviai verso la porta. Lui aggrottò le sopracciglia.
«Non mi aiuterai con il miele, quindi?»
«No, mi dispiace.» Gli dissi. Entrai nella luce.
Un passo dopo era l’alba, sulla spiaggia, lui era seduto su un asciugamano a poca distanza dalla battigia. Il vento carico di salsedine e di odore di spuma di mare gli scompigliava i capelli. Quella che giocava tra le onde doveva essere mia madre. Mossi un altro passo e mi resi conto di quanto il mio peso gravasse sulle ginocchia. Le mie mani tremavano. Compresi di essere invecchiato molto. Lui, in compenso, era ringiovanito parecchio. Trascorsi gli ultimi quindici minuti dell’esperienza immobile, in quel punto, a contemplare assieme a lui l’inizio di un nuovo giorno.

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