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«Non preoccuparti, Ron.»
Sono le ultime parole che ho ricevuto dalla base Lunare internazionale. Quelle parole hanno impiegato quattro anni ad arrivare, e quattro anni aveva impiegato il messaggio mio e di Dickens a giungere sulla Luna. Dickens non è riuscito ad attendere tanto a lungo, si è sparato con con una fiocina anti-alieno, è successo due anni fa. Mi sono sempre chiesto perché non si è semplicemente tolto il casco. Questo planetoide ha un’atmosfera così sottile che se l’avesse fatto la testa gli sarebbe esplosa comunque. O forse prima si sarebbe congelata, e poi esplosa. O forse sarebbe morto soffocato prima che la testa gli potesse esplodere, non lo sapremo mai, perché ha preferito spararsi con la fiocina anti-alieno. Non è ridicolo che esista una cosa del genere? Una fiocina anti-alieno. Ce ne hanno fornita una a testa, nel caso in cui oltre il tunnel avessimo incontrato “alieni ostili”. Ma sapete cosa c’era oltre il tunnel? Altro spazio. Pianeti, sistemi solari, galassie. Ma essenzialmente, al 99%, vuoto cosmico. Niente di niente. Né al di là, né al di qua di quel maledetto tunnel. Cosa si aspettavano, sulla Terra? Cosa speravamo noi quattro imbecilli, sigillati in un proiettile di duralluminio e sparati attraverso un worm-hole? Perché pensavamo che oltre il tunnel potesse esserci qualcosa di diverso da altro spazio? Eppure otto anni fa eravamo tutti e quattro lì, seduti su poltroncine ad assorbimento di spinta, con le nostre tute spaziali lucide, caschi trasparenti, equipaggiati di tutto punto per sopravvivere anni all’interno di quella angusta, scomoda capsula. E nessuno di noi, eruditi e addestrati astronauti, si era mai posto la questione. O forse sì, ma non era mai stato sollevato alcun dubbio. Sebbene la percentuale di incontrare una città di cupole di cristallo eretta da una razza extraterrestre su un pianeta a milioni di anni luce dalla Terra fosse infinitesimale, ognuno di noi avrebbe scommesso sull’infinito. Eravamo così sicuri che sarebbe andata bene, così entusiasti, così orgogliosi di noi stessi. Dalla comparsa del worm-hole all’organizzazione della spedizione Atlantic erano trascorsi solo dieci anni. Un tempo brevissimo per mettere in piedi una cosa tanto grande: quattro uomini lanciati attraverso quella breccia dimensionale, esploratori dell’ignoto, portatori di pace, araldi dell’umanità intera. Due di noi morirono attraversando il tunnel. La distorsione gravitazionale interagì con i corpi di Brown e Patel, non so ancora in che modo. Arrivati dall’altra parte, erano… una cosa sola. Non fisicamente. Mentalmente. Ragionavano come se condividessero lo stesso cervello, si vedevano l’un l’altro come se fossero entrambi ambedue gli individui. Durò pochi minuti, poi entrarono in coma cerebrale, e qualche altro minuto dopo erano entrambi morti. Io e Dickens eravamo già terribilmente scossi, ma l’addestramento ci impedì di cedere al panico e seguimmo il protocollo. Individuammo il pianeta più vicino. A noi stava scegliere il nome da dargli. Atterrammo e lo chiamammo Brown-Patel. Come i nomi scritti sulla lapide di metallo, che fu la prima cosa che costruimmo. Seppellimmo i corpi dei nostri amici e compagni, poi cercammo di comunicare con la base lunare. Il segnale c’era, ma il computer di bordo calcolava il tempo di ricezione in 1344 giorni terrestri. Quasi quattro anni. Il silenzio tra me e Dickens, dopo quel responso, durò venti ore. Infine decidemmo di inviare comunque un messaggio, sarebbe stato stupido non farlo. Nel nostro messaggio c’erano tutte le informazioni che possedevamo. Stabilire delle coordinate spaziali per individuare dove ci trovavamo era difficile, perché nessuna delle stelle che conoscevamo era più riconoscibile, dall’altro lato del tunnel. Ma scansionammo il cielo con una videocamera e lasciammo alla base lunare il compito di analizzare i dati e capire dove ci trovavamo. Chiedemmo di proseguire con quanto pianificato, e cioè di raggiungerci con l’Atlatic II, e poi con Atlantic III e così via. Noi avremmo atteso, e nel frattempo avremmo edificato la prima base extra-solare dell’umanità, la base Brown-Patel. Così facemmo, costruimmo la base, smontando e rimontando i pezzi della capsula, secondo le istruzioni che eravamo stati addestrati a seguire. La base, una volta costruita, era -se possibile- ancora più angusta della capsula Atlantic. Ma avevamo tutto ciò che ci serviva per sopravvivere, e per molto più tempo di quanto pianificato perché, per fortuna o meno, Brown e Patel erano morti. Razionando il cibo e riciclando l’acqua, avremmo potuto tirare avanti per sei anni. Quattro anni per ricevere il messaggio, sei mesi per organizzare il decollo della Atlantic II, quattro mesi di viaggio. Ce l’avremmo fatta. O almeno, i nostri corpi ce l’avrebbero fatta. Le nostre menti, no. Non la mente di Dickens, perlomeno. Iniziò a perdere lucidità dopo un paio d’anni di monotona permanenza su Brown-Patel. Cominciò a chiedersi se avrebbe vissuto per sempre in quel modo, se non avrebbe più respirato altro che miscela di aria sintetica, se non avrebbe più visto un film al cinema o pisciato in un cespuglio. Lentamente cadde in uno stato mentale sempre più confuso. Fui costretto ad essere severo con lui, e la severità perlopiù funzionò. Per qualche altro anno. Poi Dickens scomparve. Non era più lui, non ne era rimasto che un guscio di carne in un guscio di tela isolante pieno d’aria, e dentro non c’era più nulla. Per ancora due anni vegetò senza più nemmeno comunicare. Non capivo quand’è che era sveglio, né quando dormiva. Mangiava e andava di corpo in orari assurdi, probabilmente quando se lo sentiva, senza rispettare più i cicli artificiali di notte e giorno, né gli orari dei pasti. Infine, un giorno, prese la fiocina dall’armadietto, uscì sulla superficie di Brown-Patel e si sparò in testa. Il suo corpo ondeggiò in aria per quasi un minuto, poi cadde a terra sollevando polvere giallastra. Lo seppellii vicino a Brown e Patel. Diedi il suo nome a una delle due lune di Brown-Patel, che da quel giorno si chiamò Dickens. Il planetoide possedeva un’altra luna, più piccola (o forse più distante, o magari più piccola e anche più distante). A quella luna diedi il mio nome, Dante. In realtà il mio nome è Ron, Ron Dante. Ma quando si assegna a qualcosa il nome di qualcuno, di norma gli si assegna il cognome, giusto? Comincio anche io ad essere confuso. Sono ormai più di due anni che vivo da solo su Brown-Patel. Attendevo l’arrivo della Atlantic II da così tanto tempo che non pensavo minimamente che la base lunare, invece, mi avrebbe risposto. Per dirmi «Non preoccuparti, Ron.» Non mi preoccupo, arriverete. Arriveranno. Di sicuro arriveranno prima che finisca l’ossigeno, che è agli sgoccioli, o le provviste, che dureranno ancora solo per poche settimane. Nel frattempo ho capito perché Dickens si è sparato in testa con una fiocina anti-alieno. Perché su Brown-Patel gli alieni siamo noi. E siamo stati ostili, ostili nei confronti di noi stessi. Dickens ha seguito il protocollo. Ha tentato di comunicare con l’alieno, di offrire pace, di instaurare una relazione non ostile. Ma di fronte all’indifferenza di quell’alieno, ha compreso che non c’era alcuna pace nella sua contro-offerta. Ci veniva offerta solo una lenta, noiosa, disturbante, lunghissima morte. Era un’offerta di morte. Era un alieno ostile. L’aveva ucciso. Atlantic II non arriverà mai, ora lo so. Questo planetoide e le sue cazzo di lune se ne fottono dei nomi che gli abbiamo dato. Se li scrolleranno di dosso non appena morirò, perché non resterà più nessuno a ricordare che glieli avevamo assegnati, e nessuno leggerà i diari che abbiamo memorizzato con tanta cura nel computer della base. Sono stato abbandonato qui, da solo, a morire. Maledetti stronzi terrestri figli di puttana. Vi odio tutti, vi odio. Oh, no! Un alieno ostile! Sparagli, Ron! Sparagli!

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