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Era fuggito da Innsmouth, ma ormai era troppo tardi. Samuel si trascinava tra i campi incolti durante le prime luci dell’alba, e non sentiva il freddo. La brina era ancora lungi dal trasformarsi in rugiada, e sull’impermeabile lungo e verde indugiavano spolverate di ghiaccio che non scivolavano via nonostante l’andamento incerto e barcollante di Samuel. Una delle sue gambe era cresciuta troppo ed era divenuta troppo disuguale all’altra per permettergli di camminare spedito. Il braccio dallo stesso lato della gamba deforme ormai era il grosso arto di un artropode marino, con tanto di chela al posto della mano. Aveva dovuto praticare un foro nell’impermeabile e infilarci il braccio, perché era impossibile indossarci qualcosa sopra. Il carapace lucido e color aragosta era freddo al tatto, come ormai quasi tutto il suo corpo. Non sentiva più alcun calore provenire dal proprio petto, si era trasformato in un essere a sangue freddo, una creatura che apparteneva più agli abissi che a quelle terre verdeggianti. Ma non voleva fare la fine di tutti gli altri. Non voleva concedere se stesso al dio delle profondità. Aveva assistito a come la sua intera famiglia era scivolata verso l’oblio, dimenticando il sapore del cibo riscaldato, il conforto del focolare, la carezza del sole sulla pelle. I loro occhi erano divenuti vitrei, il loro sangue salato, la loro pelle squamosa. E per cosa? Per poter continuare a vivere? Cosa avevano chiesto in cambio? Non doversi spezzare la schiena in mare, lottando con il cielo e con le reti da pesca, per poter portare a casa del cibo, crescere dei figli, andare in Chiesa la domenica, tempo per vedere i propri cari crescere, invecchiare, morire. Era tutta qui la ricompensa che Dagon aveva loro concesso. Serenità, prosperità, mai più fame, mai più sofferenza. Sembrava un buon patto, l’intero paese l’aveva stretto, ma lui no. Samuel aveva voltato le spalle all’altare, aveva rinnegato Dagon. Anche quando gli altri pescatori tornavano con le reti gonfie di pesce, anche quando i loro bambini ingrassavano e crescevano a dismisura. Lui continuava a lottare con il mare, a lacerarsi le mani tirando la lenza, a spezzarsi la schiena sollevando le ceste da pesca. E nonostante avesse rinnegato Dagon, il dio delle profondità continuava a tormentarlo. Nei sogni, con allucinazioni sempre più vivide, mutandogli le carni. Era fuggito da Innsmouth quando sua sorella aveva deciso di trascinare il proprio corpo gonfio e lucido fino al mare e poi non era tornata. Quando sua madre aveva smesso di sorridergli perché i suoi denti erano divenuti irti come spine e le sue parole gorgoglii sconnessi. Quando suo padre aveva staccato il crocefisso dal muro con le sue dita verdi e artigliate per appenderci l’effigie di Dagon. Ma ormai era troppo tardi. Samuel si rese conto che quei campi verdi non erano che l’ennesima allucinazione. I suoi piedi deformi si stavano trascinando sulla spiaggia. Il richiamo del mare aveva già riempito la mente di ogni abitante del paese, erano già tutti scomparsi tra i flutti. Dagon stesso emerse dalle acque e lo prese per mano. Là fuori, gli disse, saresti solo un emarginato, un pescatore povero e puzzolente, un essere che suscita ribrezzo. Negli abissi sarai parte di una famiglia grande, unita, eterna. Samuel scivolò nell’acqua. Sulla spiaggia, dei poliziotti gridavano qualcosa, terrorizzati. Forse erano stati testimoni dell’esodo. Ma era troppo tardi. Troppo tardi.

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