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Seguivo i suoi spostamenti già da molto tempo. Settimane, anzi mesi. Si era risvegliato in un caldissimo giorno d’estate di qualche anno fa sulle sponde del Mar Rosso, e aveva iniziato ad attraversare il continente africano arrecando devastazione e morte a tutte le popolazioni nelle quali si era imbattuto. Guidato da chissà quale istinto primordiale, si era diretto immediatamente verso nord-ovest. Le foreste del centro-Africa mostravano ancora i segni del suo passaggio: intere valli di alberi divelti, animali in fuga, corsi d’acqua deviati, frane e terremoti. Il makhluq qadim era alto novecento piedi e solo Allah sa quanto possa pesare. Le sue zampe colonnari lasciano sul terreno impronte profonde svariati metri anche laddove la terra è più dura e secca. Il suo ruggito scosta le nubi. Quando si distende per riposare (cosa che avviene solo una volta ogni dieci o quindici giorni, per fortuna) genera fosse tanto profonde da attirare le acque dei corsi d’acqua nei dintorni, creando nuovi laghi e nuovi burroni laddove la savana si distendeva a perdita d’occhio e i fiumi scorrevano placidi. Io fui avvisato della sua esistenza solo quando makhluq qadim attraversò il deserto. Un’ombra stagliata contro il cielo azzurro che si faceva sempre più nitida man mano che la creatura si avvicinava tra le dune. Alcuni uomini provenienti dal sud mi dissero di aver tentato di fermare la sua avanzata. Il makhluq qadim aveva spazzato via un’intero esercito con un solo colpo di coda e con la stessa disinvoltura con la quale un cavallo scaccia le mosche. Si rivolgevano a me perché ero a capo dell’ultima forza militare che avrebbe potuto opporsi alla creatura prima che giungesse sulle rive del Mediterraneo. Se non l’avessimo fermato, avrebbe oltrepassato le colonne d’Ercole e sarebbe giunto in Andalusia, e da lì avrebbe continuato a seminare distruzione per tutto il continente europeo. L’ambasciatore degli Omayyadi non tardò a riportare la risposta dei miei Signori: ero autorizzato a combattere il makhluq qadim e a sconfiggerlo, nel loro nome e in quello di Allah. Ero convinto di potercela fare: un essere così grande, se fatto cadere a terra, sarebbe morto schiacciato dal proprio peso. Accadeva persino agli elefanti, migliaia di volte più piccoli, figuriamoci ad una creatura della sua massa. La gravità era dalla mia parte. Ma avrei dovuto colpirlo prima che raggiungesse il mare: una volta in acqua, ogni mio vantaggio sarebbe svanito. Fu così che impiegai i giorni che rimanevano prima del suo arrivo a edificare colossali palizzate. Feci arrivare i tronchi dalle coste dell’Europa, con navi imponenti, ordinai che ogni tronco fosse appuntito e piazzato nel terreno con la punta rivolta verso il mostro e un’angolo di novanta gradi o meno. La mia speranza era che ferendolo alle caviglie più e più volte, alla fine sarebbe crollato. Perseguendo la stessa strategia, feci disporre lancieri e arcieri nei pressi della spiaggia, pronti a scoccare frecce non in direzione del suo muso o del suo ventre, bensì verso le ginocchia e gli stinchi. Temevo tuttavia che se il piano fosse riuscito e il makhluq qadim fosse crollato a terra, avrebbe generato un terremoto catastrofico. Per questo diedi ordine di evacuare tutti i villaggi in prossimità del punto in cui avremmo attaccato la creatura, e così fu fatto. Non avrei mai sperato che Allah benedicesse la nostra impresa in maniera così evidente, ma quello che accadde poco prima che il makhluq qadim si imbattesse nelle nostre palizzate fu incredibile: la sua coda, spessa e pesante, si incagliò sul fianco di una montagna. Non poteva che essere un segno, il segno che i cieli erano con noi. Diedi l’ordine di attaccare. Volarono in aria più di diecimila frecce. I cavalieri assalirono le caviglie scagliose del mostro conficcandovi le lance più acuminate. Addirittura, facemmo esplodere delle ceste di polvere pirica sotto i suoi piedi, affinché il bruciore lo costringesse a muoverli in avanti. Quando il makhluq qadim sollevò la gamba, un’intera collina franò scivolando contro buona parte dei miei uomini. I superstiti furono investiti dall’onda d’urto che si generò quando il piede della creatura tornò a calcare il terreno. Numerosi pali si conficcarono tra le dita dell’essere, ma nel contempo una coltre di polvere, terra e detriti investì in pieno tutti noi. Suonai la ritirata. La creatura gridava il suo dolore al cielo facendolo tuonare. Chi era ancora in sella al suo cavallo si allontanò abbastanza in fretta da evitare la pioggia di rocce che piovve nell’area. Non fummo in molti. Dalla cima di uno sperone a poca distanza dalle colonne d’Ercole vedemmo il makhluq qadim trascinarsi a forza verso il promontorio che si sollevava dalle acque del mare, e crollarci contro. Il boato fu assordante. La pioggia di detriti così violenta che sembrava che il disco terreste ci si fosse ribaltato sulla testa. Io mi lanciai a terra e vidi il mio stesso cavallo morire, colpito da un masso grande quanto un uomo. Anche io fui colpito da una innumerevole quantità di sassi e zolle di terra. Una nube di polvere ci sommerse tutti pochi istanti dopo. Le mie orecchie fischiarono per quasi un’ora e per tutto quel tempo restai immobile, sperando di aver abbattuto il mostro e di aver meritato la benedizione di Allah. Quando finalmente mi decisi a sollevare la testa mi resi conto di aver perso un’occhio, strappatomi via da una scheggia volante durante il terremoto. Non rinunciai comunque a gettare uno sguardo verso il mare, e fu allora che vidi il corpo imponente della creatura immobile, scivolato privo di vita nelle acque tra i due continenti. Cadendo doveva aver cozzato la testa contro la sommità del promontorio, finendo così per arrotondarla, ma altresì causandosi così una ferita mortale. Gabbiani, altre creature del mare e animali di ogni tipo avrebbero banchettato con il suo corpo per i mesi a venire e il fetore del suo corpo in decomposizione avrebbe impestato l’intera zona per ancora più tempo, tuttavia il makhluq qadim era stato sconfitto e io fui degnamente glorificato e celebrato. Gli Omayyadi decisero che d’ora in poi le colonne d’Ercole si sarebbero chiamate Jabal Ţāriq, in onore a me, Tariq ibn Ziyad, grande condottiero berbero e uccisore del makhluq qadim. Da allora passai alla storia come Tariq il guercio.

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