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Si chiamava URE ed era l’acronimo di “Unità per la Ricerca e l’Esplorazione”. Teoricamente si sarebbe dovuto leggere proprio così, “ure”, ma a lui piaceva l’idea che si leggesse un po’ all’americana, ovvero “iuri”, perché così il suo nome suonava simile a quello del progettista che lo aveva finalizzato, Yuri Popov.

Si sollevò in piedi e si guardò attorno. Splendida desolazione. Una volta aveva sentito questa descrizione riferita alle pianure dell’Islanda: splendida desolazione. Ma quello che aveva di fronte non ricordava affatto il panorama delle pianure islandesi. Non c’era torba né vegetazione, né atmosfera visibile. Il cielo era buio, profondo, nero e stellato. Rocce aguzze e polvere si estendevano a perdita d’occhio. L’assenza di colore era l’unico colore che riusciva a rilevare: il grigio definiva ogni volume, ogni masso, roccia e sassolino. L’avevano scaricato su un planetoide privo di vita.

Mosse i primi passi. I suoi sensori misurarono la gravità: un diciassettesimo di quella terrestre. Davvero era un pianeta minuscolo e privo di vita. I suoi piedi appuntiti lasciavano sul terriccio piccoli fori a distanza di un metro e mezzo l’uno dall’altro. Guardandosi alle spalle, sembrava che qualcuno avesse forato con degli stecchini la crosta di un dolce, disegnandovi una fila di puntini. Nel frattempo arrivarono i dati relativi all’analisi atmosferica. Assente. Temperatura quasi prossima allo zero assoluto. Stella più vicina… mmh non poteva ancora stabilirlo, avrebbe dovuto attendere una rotazione completa per poter osservare una porzione maggiore di cielo. Ma a giudicare dalle radiazioni residue nelle rocce, probabilmente il “sole” più vicino era comunque troppo lontano per scaldare la superficie di questo pezzo di roccia scagliato nello spazio.

Un asteroide. Ecco dove poteva trovarsi. Su un asteroide. Tra gli umani è abbastanza comune immaginare un campo di asteroidi come una nuvola di rocce che fluttuano a poca distanza l’una dall’altra, colpendosi reciprocamente nel loro vagare erratico. Ma la verità è che tra un asteroide e l’altro ci sono mediamente milioni di chilometri. Dalla superficie di un asteroide, gli altri asteroidi della stessa fascia appaiono come puntini che sfrecciano in cielo. URE rivolse gli occhi al cielo, la sua testa tonda e metallica ruotò di 360 gradi sul collo sottile e cilindrico, a quel punto aveva carpito abbastanza prove da confermare la propria ipotesi. Un asteroide. Ma quale asteroide? E perché quell’asteroide? Non trovava niente nella sua memoria. Né un mission-log, né un back-up di dati… e nemmeno una frequenza radio attraverso la quale spedire i dati raccolti. Dov’era controllo missione? Dov’erano finiti tutti?

Aprì lo sportello delle batterie, situato di fianco sul proprio corpo. Né controllò lo stato. Quella in uso era al 99% e l’altra al 100%. Si trattava di batterie a materiale fissile incapsulato, con due di quelle avrebbe potuto continuare a funzionare, al minimo delle funzioni, per circa diecimila anni terrestri. E non avendo granché da fare, non riteneva che fosse necessario sprecare energia. Si sedette su una roccia. Diecimila anni sono un tempo lunghissimo per un essere umano, ma per un essere con cervello a rete neurale artificiale in grado di elaborare informazioni milioni di volte più velocemente di un uomo, era un tempo quasi infinito. Eppure, anche con tutto quel tempo a disposizione, e tutta quella potenza di calcolo, non sarebbe mai riuscito a rispondere all’unica domanda di cui davvero avrebbe voluto conoscere la risposta, ovvero: che ci faccio qui?

Si sentì molto umano.

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