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«Lei crede di essere qui solo per seguirmi e porgermi la mazza che le indico, quando gliela indico, Hedelmann?»
Roy scosse la testa.
«No, certo che no. So benissimo che essere suoi ospiti presso il club equivale quasi a una promozione, signor Tucker.»
Nick Tucker annuì, poi stese la mano all’altezza delle sopracciglia e scrutò il campo. Per fortuna il cielo era sgombro e il vento pacato, al punto che le piccole querce ai margini del fairway ne erano a malapena agitate, e i loro rami si allungavano placidi e immobili stendendo le foglioline al sole.
«Passami il legno sei.» Disse a Roy. Roy non discusse e si affrettò a sfilare la mazza corrispondente dalla borsa. Ogni mazza era coperta da un calzino di cotone con ricami precisi, e recava un numero altrettanto finemente ricamato. Roy tolse il calzino prima di passare la mazza al suo capo. George Nipote, l’autista personale di Tucker, si accese un grosso sigaro e si appoggiò sulla golf-car. Lanciò a Roy un’occhiata stanca ma rassicurante, come se condividesse la sua perplessità per il fatto che Tucker avesse deciso di usare un legno sei anziché il driver.

STOCK!

La pallina volò in alto e scomparve in cielo. Tucker passò la mazza a Hedelmann affinché la rimettesse a posto. Così fece.
«Vedi Hedelmann, nella nostra compagnia esistono legami molto forti tra i dirigenti di più alto livello. Non voglio dire che siamo una sola famiglia, perché non sarebbe vero. Nessuno di noi va a letto con i colleghi… a parte la Forster che credo abbia una storia con Milligan, quello del magazzino. Ma appunto, si tratta di un magazziniere, non di un altro dirigente senior. E nemmeno siamo vincolati a partecipare alle feste di compleanno l’uno dell’altro. O di vederci il giorno del ringraziamento. O durante le ferie. Mio Dio, detesterei trascorrere più di quanto devo nella stessa stanza con uno qualunque di quei barracuda, figuriamoci una settimana di villeggiatura!»
Rise fragorosamente. Roy accennò un sorriso e restò in silenzio. Entrambi salirono sulla golf-car e si diressero verso la zona alla metà della buca, un par 3 con una svolta a gomito proprio prima del green. Il signor Tucker, giocando con prudenza, aveva preferito non cercare di raggiungere il green con il primo colpo. Per questo aveva preferito un legno al driver. Il signor Tucker era così: preferiva la certezza di un par raggiunto con misurazione e attenta valutazione delle risorse, all’ebrezza di un eagle giocato sul rischio.
Nipote guidava la golf car con la stessa spavalderia con la quale guidava la Mercedes del suo capo, e non aveva spento il sigaro prima di mettersi al volante. Quel fumo denso e puzzolente scivolava via dalla bocca dell’autista e finiva dritto in faccia a Roy, che sedeva di fianco. Stavano stretti, in tre sulla stessa golf-car, ma Hedelmann non poteva permettersene un altra, e Tucker ne aveva noleggiata solo una, quindi tacque sull’argomento. E anche sul sigaro di Nipote.

STOCK!

Con il secondo colpo, Tucker fece atterrare la sua pallina proprio nel mezzo del green. Non era una posizione particolarmente buona, giacché la buca era posizionata molto vicino al perimetro nella zona più pianeggiante, ma Tucker esultò lo stesso.
«Cosa stavamo dicendo? – Disse, subito dopo aver rimesso la mano in tasca. – Ah, sì. Del rapporto tra noi dirigenti.»
«Diceva che siete come una famiglia, ma senza gli obblighi tipici di una parentela.» Gli ricordò Roy, infilando il ferro nella sacca.
«Ah, già. Vedi Hedelmann… posso chiamarti Roy?»
«Ma certo signore.» Rispose prontamente Hedelmann.
«Vedi, Roy… c’è molto in ballo. E intendo dire molto di più di quello che è visibile. Di quello che la gente vede. Che la gente comune, vede.»
Il signor Tucker girò un braccio attorno al collo di Hedelmann mentre entrambi si incamminavano verso la golf car. Dentro Roy in quel momento convivevano due emozioni contrastanti: da un lato l’orgoglio per essere entrato così in confidenza con il suo capo, dall’altro il fastidio per quel gesto molto poco formale. Ma d’altro canto, se Tucker avesse voluto essere formale, non l’avrebbe di certo invitato sul campo da golf. L’avrebbe fatto chiamare nel suo ufficio, al trentanovesimo piano, con vetrate panoramiche e scrivania lucida. E se Roy non avesse messo in conto di dover sopportare il fumo del sigaro di Nipote e violazioni del proprio spazio personale come quelli, non avrebbe accettato. Si consolò pensando che quella sera, tornando a casa, avrebbe potuto sfoggiare il più grande dei suoi sorrisi e annunciare a sua moglie che la sua carriera sembrava aver fatto un grosso passo avanti. Sarebbe stato un annuncio inaspettato, soprattutto dopo il lunedì nero dello scorso ottobre e le previsioni dei mercati a breve termine. Ma sembrava che l’azienda di Tucker non avesse risentito del colpo, anzi stava attraversando quei mesi sfoggiando una rinnovata intraprendenza e nessun cedimento.
«Tu penserai che io mi stia riferendo ai soldi. – Proseguì Tucker, mentre una leggera brezza gli sollevava appena il cappello. – I soldi sono al sicuro! Non sono i nostri rendiconti a preoccuparci, bensì il nostro nome. Come ti dicevo, c’è ben altro in ballo. Puntiamo al top, ragazzo. E intendo al top dell’America. Vogliamo ascendere, divenire i leader, far capire al resto del mondo che abbiamo la stoffa per guidare la nave, anche nella più profonda delle oscurità. Abbiamo bisogno di persone come te, Roy. Persone alle quali non tremano le gambe di fronte alla verità.»
La lunga serie di metafore dal significato vago aveva un po’ stordito Roy, che salì sulla golf car con un’espressione decisamente perplessa stampata sul volto. Quelle di Tucker erano frasi altisonanti, anche per il direttore esecutivo di una grossa azienda. Sembrava quasi che volesse conquistare il mondo.

Il tragitto in macchina fu breve, e Nipote tornò rapidamente ad annerirsi i denti appoggiato sul cofano della piccola vettura bianca. Tucker e Hedelmann si avviarono invece verso il centro del green, dove la piccola pallina lucida di Tucker era atterrata qualche minuto prima.
«Toglimi la bandierina dalla buca, ragazzo.»
Roy si allontanò fino al margine del green, raggiunse la buca ed estrasse la bandiera. Poi si voltò verso il capo, che stava ancora saggiando il putter sventolando l’erba.
«Un momento, signor Tucker!» Esclamò a voce alta, accorgendosi di aver calpestato qualcosa. Una melma verdognola circondava la buca, imbevendo l’erba nei pressi. Roy indietreggiò di un passo e si rese conto che le sue scarpe da ginnastica nuove, comprate apposta per l’occasione, ne erano già intrise. Filamenti traslucidi si allungavano dal prato alla sua scarpa, quando la sollevava da terra.
«Che succede, ragazzo?»
«Non capisco… – Mormorò Roy, a voce troppo bassa perché Tucker potesse sentirlo. – Sembra che un cane abbia vomitato sul green…»
Vide qualcosa. Anzi, per la verità NON vide qualcosa. Lo sguardo gli cadde all’interno della buca, dalla quale aveva appena estratto l’asta con la bandierina triangolare. Era nera. Buia, senza fondo. Non riusciva a vederne il fondo. Eppure doveva esserci una sorta di coppetta metallica, all’interno, con un foro nel quale era incastrata la bandiera. Invece nulla, solo oscurità. Era come se quel foro scendesse in profondità, scivolasse giù fino al centro della Terra. Roy continuò a fissarlo, finché non udì qualcosa provenire dal buio. Una voce flebile, tanto sottile da essere quasi coperta dalla brezza che correva sul prato appena tagliato, dal rumore distante dei tosaerba, o da quello degli irrigatori. La voce gli accarezzava i timpani, solleticandogli le orecchie con la dolcezza di una carezza. Roy non ne comprendeva le parole, ma era come se stesse parlando di lui.

STOCK!

Una pallina bianca ruzzolò delicatamente verso la buca, si mosse ipnoticamente attorno al bordo compiendo un giro completo, poi cadde nel buio.
«NO!» Gridò Roy, e affondò la mano nella buca, nel tentativo di afferrarla prima che precipitasse nel vuoto. Ci riuscì, la strinse fra le dita, ma nel contempo qualcosa strinse la sua mano a sua volta. Una propaggine viscida e molliccia in superficie, ma forte come il muscolo di una piovra. Gli avvolse il polso, inondandolo di un freddo intenso e talmente acuto che Roy perse immediatamente ogni sensibilità fino al gomito. Era come se il suo braccio in quel momento fosse sospeso nello spazio, nel vuoto cosmico.
«Che succede, ragazzo?» Ripeté Tucker, che ne frattempo doveva aver ben esultato per essere riuscito a rientrare nel par. Roy gli rivolse uno sguardo disperato.
«Sei rimasto incastrato con la mano nella buca?» Lo ridicolizzò Nipote, scoppiando poi in una teatrale risata. Tucker fece sussultare il petto un paio di volte, soffocando una risata che non volle palesare. Roy sentiva il tentacolo che continuava a premere sul suo polso. Premeva così tanto che in qualche modo era penetrato nella carne, stritolando le ossa stesse. Non provava dolore, perché l’arto era del tutto intorpidito, come addormentato, ma riusciva comunque a sentire quella cosa viscida che serpeggiava sotto la sua pelle.
Gridò. E cadde all’indietro.

Colpendo il terreno con il sedere, in qualche modo si svegliò da quell’incubo angoscioso. Nipote aveva ripreso a ridere, mentre Tucker gli rivolgeva uno sguardo benevolente, del tutto inappropriato. Lo stesso sguardo che rivolge un nonno a suo nipote, quando quest’ultimo si sbuccia un ginocchio, prima di correre a consolarlo. Ma Tucker non corse a consolare Roy. Roy si accorse che il braccio non era più intorpidito, che nelle dita stringeva ancora la pallina, e che strane punture gli contornavano la base della mano, proprio in corrispondenza delle vene più blu.
«Qualcosa mi ha punto! C’era un animale nella buca!» Gridò.
Tucker e Nipote risero ancora, restando immobili ai margini del green. Gli diedero tutto il tempo di scuotere la testa, rialzarsi, riordinarsi i capelli e la camicia, e poi di rimettere la bandiera al suo posto, nella coppetta metallica, dove un foro permetteva di incastrare l’asta. Roy barcollò, ancora stordito, verso la golf car.
«Capisci, adesso, cosa c’è in gioco?» Gli sussurrò Tucker passandogli il putter e indicandogli la sacca. Roy aggrottò le sopracciglia, confuso. Tucker allora si sbottonò il polsino della camicia e lo sollevò. Sul suo polso c’erano delle cicatrici, dei segni. Era ciò che restava di strane punture, che correvano sulla pelle quasi in corrispondenza delle vene.

«Puntiamo al top, ragazzo. E intendo al top dell’America. Vogliamo ascendere, divenire i leader, far capire al resto del mondo che abbiamo la stoffa per guidare la nave, anche nella più profonda delle oscurità. Abbiamo bisogno di persone come te, Roy. Persone alle quali non tremano le gambe di fronte alla verità.»
 

STOCK!

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