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La porta si aprì cigolando debolmente, i cardini pneumatici soffiarono con forza e il pesante metallo ruotò con lentezza, sfiorando appena il pavimento di lastre di marmo. La luce del corridoio disegnò un triangolo nella stanza, che andò via via ampliandosi, fino a gettare un grosso ritaglio di luce sulla sala, colma di figure immobili.

«La sala dei pezzi in attesa. Così la chiamano.» Disse la morte, facendo un passo avanti. Ping si mosse per starle dietro, e varcò la soglia dell’ampia stanza. Sebbene il pavimento fosse suddiviso in quadri dalle lastre di marmo che lo componevano, vi era un solo colore e le statue, o per meglio dire i busti, erano disposti piuttosto disordinatamente. D’altro canto, ogni piastra del pavimento era in grado di contenere, nel suo perimetro, molti pezzi, e non sarebbe stato intelligente disporli in modo che ce ne fosse solo uno per piastra. Ping lasciò quindi che il suo senso dell’ordine continuasse a pizzicarlo fastidiosamente, e si concentrò sulle parole della morte, che era già arrivata quasi al centro del grande spazio.
«Quelli che vedi sono tutti i pezzi che potresti trovare sulla tua scacchiera, più tardi. Pezzi originali, unici, che renderanno la partita imprevedibile.»
Ping fece un giro su se stesso. Nessuna delle figure gli risultava familiare. Erano tutte scolpite nella pietra, di due colori diversi, alte un metro e mezzo e quando avevano un volto riconoscibile, le loro espressioni erano imperscrutabili.

«Questo cos’è?» Chiese.
La morte sollevò un braccio scheletrico e fece scivolare via la manica di stoffa nera, pesante e sfrangiata, quindi indicò il pezzo in questione.
«Questo è l’elefante. Muove di una casella in diagonale, qualsiasi direzione, e non può essere mangiato dai pezzi più bassi di lui.»
Ping osservò meglio la scultura. Somigliava a un elefante, ma non lo era decisamente. In cima a una colonna ben levigata, stava il busto di una creatura palesemente umanoide, con indosso un pezzo di tuta spaziale sulla quale era inciso “NIE11”. La creatura aveva un naso enorme e deforme, che si allungava come un grosso bruco ripiegandosi verso il basso, fino a toccare il labbro inferiore della sua smisurata bocca. Dai lati delle labbra spuntavano diverse zanne, e le più lunghe fuoriuscivano dalla mascella per puntare verso il basso. Diversamente dalle zanne di un elefante, erano tozze e poco prominenti. Le orecchie erano ampie, ma flosce, come quelle di un beagle. La fronte sfuggente, gli occhi piccoli.
«Non è un elefante.» Commentò Ping.
«Oh, no. Non lo è. – Ammise la morte. – È un abitante di un pianeta lontano da qui, un sistema prossimo alla stella che chiamate Arturo. Lo chiamo “elefante” perché somiglia a quel buffo animale che avete sulla Terra.»
«Pensavo ti occupassi solo della morte degli esseri umani.»
«Presuntuosetto.» Ridacchiò la morte. Poi si spostò di fianco a un pezzo poco distante e fece notare che anche quello raffigurava un alieno. Un altro era un essere artificiale, un altro ancora un insetto gigante, un altro un gatto.
«Ogni pezzo è un essere vivente?» Chiese Ping, muovendosi tra le varie statue.
«Ogni pezzo è un essere vivente che ha vissuto la propria vita da qualche parte dell’universo, auto-cosciente della propria esistenza, e che poi è morto. Cosa che accade sempre e ad ogni cosa viva, dacché le leggi dell’universo non sono aggirabili. Non da chi viene al mondo in conseguenza ad esse, e per quanto ne so.»

Ping si grattò il capo e poi scrutò un pezzo che sembrava una seppia.
«È una seppia?»
«Lo è.»
«E le seppie sono auto-coscienti?»
«Ti svelerò, mio caro bambino troppo curioso, che molti esseri che vuoi umani non ritenete capaci di coscienza, in realtà sono consapevoli della propria vita e delle proprie capacità. Il fatto è che non hanno alcun interesse a dimostrarvelo.»
Ping si raddrizzò e mise le mani in tasca.
«La seppia muove e mangia in orizzontale di quante caselle vuole, e in verticale di un solo passo. È un pezzo molto interessante. Spero che durante la nostra partita, esca.»
La morte sembrava impaziente di giocare. Anche Ping era impaziente. C’era da dire che la posta in gioco, per Ping, era molto alta: se avesse vinto, sarebbe tornato in vita. Se avesse perso, sarebbe divenuto un pezzo degli scacchi, una statua di pietra immobile e silenziosa, chiusa nella sala dei pezzi in attesa, finché non fosse apparso sulla scacchiera, durante una partita con la morte. La morte invece era stata molto vaga sulle conseguenze che la partita avrebbe avuto su di lei, nel caso in cui avesse vinto, o eventualmente perso. Quando Ping glielo aveva fatto notare, lei aveva risposto:
«Non me lo ricordo. Sono milioni di anni che non perdo.»
Di certo per lei un pezzo nuovo degli scacchi doveva essere una fonte di gioia, seppure ne conservasse già a centinaia in quella stanza. Avrebbe potuto averne molti di più, ma raramente le veniva chiesto di giocare a scacchi, al momento della propria dipartita. Ping era una delle poche persone che se ne era ricordato, il giorno in cui il tumore aveva finito di divorargli il cervello.
«Allora, giochiamo?»
«Non mi spiegherai gli altri pezzi?»
«Non ha senso. Sono troppi. Meglio iniziare la partita, a quel punto ti spiegherò tutti i pezzi che saranno apparsi sulla scacchiera.»
«Ho solo un’altra domanda.»
«Dimmi pure.» Lo incoraggiò la morte, accompagnandolo all’uscita della sala.
«Sul serio una seppia, morendo, ti ha chiesto di giocare a scacchi?»

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