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La notte era silenziosa, persino gli insetti avevano rinunciato a volare, chiamarsi e inseguire le luci. Il vento era cessato e le foglie se ne stavano immobili, appese sui rami. Le cime degli alberi più alti puntavano dritte verso le stelle, senza oscillare minimamente. Sembrava che tutti volessero solo ascoltare.

«Allora, qual è il senso della mia esistenza?» Domandò l’orco per la seconda volta, guardando dritto negli occhi la piagnucolosa ragazzina che aveva trascinato nella sua torre ritorta. Giusy raccolse le coperte, che si erano ammucchiate ai suoi piedi, e se le tirò addosso fin quasi a coprirsi la testa. Continuava a singhiozzare, ma non aveva più lacrime per piangere. La gola le bruciava e le guance erano ormai tanto arrossate da dolerle.
«Devi trovarlo tu stesso, il senso! Non puoi chiederlo a me… non è giusto.» Gemette.
L’orco sollevò la mano, nodosa e unghiuta, e abbatté un manrovescio sulla faccia di Giusy. Fu talmente violento che la testa della ragazzina picchiò contro le assi della parete, le quali la respinsero con uno schiocco secco.

«Sciocchezze! – Tuonò l’orco. – Per anni ho servito un anziano arcivescovo, ossessionato da questa domanda. “Qual è il senso della mia esistenza? Qual è il senso della mia esistenza?” Ripeteva in continuazione. La domanda lo tormentava, impedendogli di dormire. Trascorreva le notti pregando, ai piedi di un crocefisso di legno malamente intarsiato, che raffigurava un Cristo sofferente al culmine della sua passione. Sperava che quell’icona di legno potesse rispondergli, invocava il nome di tutti gli angeli e poi di tutti i santi ogni notte. Ma il crocefisso restava in silenzio. Poi un giorno…»
L’orco sputò in terra, quindi ruotò la testa irta di corna e di verruche purulente, e si voltò in direzione di uno scaffale polveroso. Trascinò il suo corpo grasso e pesante fino a quel mobile, sulle cui mensole erano appoggiati diversi oggetti, dai più comuni ai più esotici, tutti vagamente disgustosi, per un motivo o per l’altro. Afferrò un piccolo libro che sembrava composto da mille e più pagine, ma sottili come dei veli. La rilegatura era raffinata e la copertina in pelle color bruno. Prima di riprendere il discorso si mosse ondeggiando fino a Giusy le lasciò cadere il libro tra le gambe.

«…un bambino! Ancora più piccolo di te, ancora meno… maturo. Un giorno l’arcivescovo lo udì leggere questo libro, e i suoi occhi si illuminarono. Una luce li trafisse, come se mille anni di stanchezza fossero all’istante scivolati via dal suo corpo, come se ogni peso che curvava le sue ossa fosse stato rimosso. Sorrise, rise e poi corse in direzione di quel bambino. Il fanciullo se ne stava immobile al centro dell’abside con quel piccolo tomo aperto in un punto imprecisato. “Ecco qual è il senso! Ecco qual è!” Gridava l’arcivescovo.»
Giusy tirò fuori una mano dalle coperte. Non aveva mai aperto quel libro, nonostante qualcuno lo avesse infilato nella libreria in camera sua, nonostante stesse lì da anni. Forse apparteneva ai suoi genitori, forse ai suoi nonni. Lo afferrò e lo avvicinò al grembo. Sulle braccia aveva ancora i segni lasciati dall’orco quando l’aveva afferrata e poi trascinata nella torre ritorta. Le sue piccole dita aprirono il tomo nel mezzo, laddove alcune pagine sottili si erano accartocciate l’una sopra l’altra, formando uno spessore anomalo che sembrava arduo da sistemare.

L’orco la osservava in silenzio, sbavando dalla bocca abnorme, respirando affannosamente dal naso porcino. Giusy scostò le pagine appiccicate e lesse qualche riga da quelle successive. Sembrava una poesia, ma le parole erano strane, incomprensibili. Le frasi erano disgiunte, prive di senso, non c’era continuità né era possibile per lei ricavare il significato di quello che non capiva dal resto del brano.
«Io… non so cosa leggere. Non so dove.» Si giustificò. Nel parlare, lo zigomo dove era stata colpita le fece ancora più male.
«Non c’è un punto! Non c’è un brano! Tu lo sai, perché sei come lui! Sei innocente!»
L’orco ringhiò sputandole addosso. Giusy riuscì a percepirne il fetore, l’odore acre e acidulo emanato dal corpo verdognolo e piagato della creatura. Temette di essere colpita di nuovo, ma l’orco parve trattenersi, come se la spronasse a tentare.
«Non so dove leggere! Non capisco cosa c’è scritto!» Gridò la ragazzina, sfidando la pazienza della creatura. La luce all’interno della torre si invigorì. La torre stessa tremò, piegandosi ancora. La porta si aprì e sua madre corse ad abbracciarla.

«Cosa è successo, Giusy?»
«Un orco mi ha trascinata nella torre contorta. C’era silenzio, tutti mi ascoltavano piangere ma nessuno sembrava veramente interessato a me…»
«Perché hai preso ancora questa vecchia Bibbia?» Le chiese sua madre. Giusy scosse la testa. Lei le tolse il libro dalle mani e lo andò a riporre nello scaffale. Il mobile era colmo di ogni genere di paccottiglia, perlopiù soprammobili inutili, statuine di ceramica, tazzine e scatole decorate. Apparteneva tutto alla signora Pitzalis, morta qualche settimana prima. Giusy era stata spostata in questa stanza appena possibile, ma molte delle cose della signora Pitzalis non erano state ancora portate via. Maria aggrottò le sopracciglia. Forse non era stata una buona idea.
«Domani facciamo liberare questo mobile, va bene? Questa stanza è la tua, adesso.» Disse. Voltandosi verso Giusy si rese conto che la luce delle lampade del corridoio, attraversando il vetro decorato sopra la porta della stanza, formava una spirale di ombre che si stagliava netta sul pavimento della stanza.
«È questa la torre contorta, Giusy?» Chiese.
«Sì, – le rispose la ragazzina. – È dove mi trascina l’orco, ogni volta che mi lasci da sola.»
Maria scosse la testa e si avvicinò alla ragazzina. Sapeva che era difficile per Giusy comprendere appieno quello che stava per dirle, ma sapeva anche che ripeterlo in continuazione era l’unico modo efficace affinché Giusy lo registrasse. Doveva divenire un pensiero abituale, o la sua mente lo avrebbe rifiutato per sempre.

«Io non sono tua madre, Giusy. Sono Maria. Ti ricordi di me? Sono una delle tre infermiere che fa il turno in questo reparto. E oggi ho il turno di notte.»
Giusy annuì, ma i suoi occhi erano colmi di tristezza. Ancora una volta sua madre si rifiutava di accettarla. Le ombre della stanza si curvarono sghignazzando. La stavano prendendo in giro. Tutte servivano l’orco.
«Ora mi prometti che la smetterai di farti male? Guarda cosa ti sei fatta qui… questi lividi impiegheranno diversi giorni ad andarsene.»
Le ferite che le aveva inferto l’orco ancora le dolevano. Lasciò che sua madre le esaminasse, ma non c’erano incantesimi in grado di lenire il doloro inferto dagli orchi. Gli orchi erano creature spregevoli, progenie della notte e del sudiciume che si annida negli angoli delle stanze, tra i mattoni umidi della torre, dove la luce del giorno non arriva mai perché la torre stessa, piegandosi su se stessa, lo impedisce.

La porta della stanza di Giusy si chiuse nuovamente. Giusy restò ad ascoltare i passi di sua madre che si allontanavano lungo i corridoi infiniti della torre. L’intera notte stava ascoltando, persino gli insetti. E quando il silenzio tornò a riempire ogni interstizio, dal buio dietro la porta emerse di nuovo l’orco. Giusy sapeva chi era in realtà l’orco, perché gli occhi erano rimasti gli stessi, nonostante il resto del corpo fosse mutato in modo disgustoso. Si trattava della signora Pitzalis, morta soffocata inghiottendo il proprio sospiro proprio in quel letto. Il corpo dell’anziana signora era stato lanciato fuori dalla torre, e le ombre l’avevano lacerato in mille pezzi, spartendoselo. Lo spirito invece era rimasto intrappolato lì, assieme a Giusy, e non si rassegnava. Di nuovo l’orco si mosse verso lo scaffale di fianco alla porta. Di nuovo afferrò quel vecchio libro. Di nuovo si mosse arrancando verso la ragazzina e le lanciò il libro addosso.

«Devi dirmelo, ragazzina. Qual è il senso della mia esistenza?»

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