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La dimora era stata violata. Dilja strinse i pugni e serrò la mascella, ingoiando il dolore. Percepì l’amaro che le scendeva in gola e poi le risaliva lungo la schiena fino alla testa, intorbidendole la vista. La porta era a terra, strappata via dai cardini di ferro ossidato e gettata sulla torba senza alcuna cura, schiacciata e dimenticata. Dall’interno della dimora proveniva un silenzio spettrale, inusuale, gelido. Dilja non varcò la soglia. Il vento che spirava sugli steli d’erba lordi di sangue le sussurrò di stare alla larga. Si voltò e si arrampicò su alcune rocce attorno alle quali correvano cinture di muschio nero, quindi si schiacciò a terra e smise di respirare. Pochi secondo dopo il suo corpo di elfa si era completamente mimetizzato con la natura nei dintorni: la pelle era divenuta bruna come le zolle sulle quali si era sdraiata, i capelli sottili come fili d’erba, gli occhi traslucidi come la rugiada, le sue dita nodose come le radici degli arbusti aggrappati sulle rocce, le sue vesti irregolari e spigolose come i massi di pietra scura spaccati dal gelo. Era invisibile. Non si asciugò nemmeno le lacrime, tanto desiderava sparire. Restò immobile, i polmoni compressi, le labbra serrate. Sapeva di poter rimanere immobile e senza respirare per molto tempo, anche giorni interi, ma sperava che non ce ne fosse bisogno, sperava che qualcuno tornasse sul posto, sperava di poter guardare i cacciatori negli occhi prima di vendicarsi.

Trascorsero ore. La brezza proveniente dal mare le accarezzò i capelli crespi e la notte vi depositò gocce di pioggia che all’alba divennero brina, e poi bruma. Il sole si risollevò dall’orizzonte, velato da nuvole gelide, mentre il cielo tornava a schiarirsi. Dilja non batté le ciglia nemmeno quando il ghiaccio le coprì le pupille, e poi si sciolse trasformandosi in rugiada. Nessuno uscì dalla dimora, nessuna voce spezzò il silenzio. A quell’ora, sua madre sfornava piccoli pani salati e suo padre ravvivava il fuoco della stufa. Suo fratello si svegliava ancora prima per andare a raccogliere bacche tra i cespugli all’ombra del fosso. C’era calore e c’erano risate e qualche volta solo il calore. Quel mattino non c’erano nemmeno quello.

Dapprima Dilja sentì il latrato distante dei cani, trasportato dal vento freddo del mattino fino alle sue lunghe orecchie appuntite, poi le giunsero ai timpani anche le voci dei padroni, i loro passi pesanti, le movenze sgraziate. I cani respiravano pesantemente, con forza. Dilja immaginò le nuvole di vapore che salivano dai loro musi umidi, mentre correvano verso le dimore degli elfi che avevano profanato il giorno prima. Immaginò i sorrisi di denti marci e le risate grasse dei cacciatori, pronti a puntare il moschetto verso altre prede, altri trofei di caccia, altri mostri di cui disfarsi prima che potessero gettare il malocchio sulle loro nobili famiglie, educate nelle scuole e indottrinate nelle chiese, senza conoscenza alcuna del mondo spirituale. Dilja non voleva prendersela con i cani, perché quegli animali non avevano responsabilità, erano carnefici innocenti, privi della capacità di discernere una lepre infreddolita da un elfo terrorizzato. Ma dovette. Appena i due levrieri saltarono giù dalle rocce, lungo il breve sentiero, Dilja li seguì. Bestie intelligenti, si accorsero di lei, nonostante emanasse odore solo di erba tagliata e muschio strappato. Fu doloroso per Dilja affondare il coltello nei loro crani, ascoltarli guaire, accompagnarli a terra, non poter onorare degnamente la fuga dello spirito dai loro corpi. Ma non c’era tempo. Si immerse in una pozza d’acqua scomparendovi del tutto, proprio pochi attimi prima che il cacciatore più veloce raggiungesse i suoi animali da caccia. Lo vide piangere e disperarsi. Piangere e disperarsi come non aveva avuto modo di fare lei, poche ore prima, di fronte alla morte della sua intera famiglia. Gli lasciò il tempo di dolersi di quella tragedia, lasciò che il dolore attecchisse per bene, scavando nel cuore del cacciatore come un badile nella terra nera. Poi emerse dall’acqua e conficcò il pugnale nella sua nuca, rigirandolo rapidamente. Il suono delle vertebre che si staccavano fu coperto dalle grida degli altri due cacciatori, sopraggiunti nel mentre.

Uno dei due imbracciò il moschetto e sparò, ma la polvere da sparo doveva essersi inumidita troppo, o forse per errore l’uomo aveva immerso il fucile nell’acqua, durante un guado. La miccia si esaurì ma il colpo non esplose e il piombo restò in canna. L’altro, più furbo o forse solo più terrorizzato, sguainò una sciabola corta che a giudicare dall’aspetto per la prima volta riluceva alla luce del giorno da quando era stata forgiata. Il metallo era stato recentemente a alquanto grezzamente affilato ma macchie di ruggine già lo coprivano soprattutto in prossimità dell’elsa. Dilja udì la voce del metallo che ringhiava, distorta. Il metallo le chiedeva di tornare nella terra, di essere sepolto, di disfarsi e di scomparire.

«Indietro! Stai indietro bestia del diavolo!»
Le gridava l’uomo con la sciabola gemente, mentre l’altro ingolfava il fucile di polvere nera cercando di ridare vita all’arma. Bestia del diavolo. Quale diavolo? Quale demonio poteva celarsi dietro o dentro di lei, e come avrebbe giovato ad una creatura abietta e corrotta il prendere possesso del corpo di una piccola ragazza della stirpe delle colline? Dilja intravide la paura negli occhi dei due cacciatori, il terrore di poter fare la fine del loro amico e dei due levrieri, la fine di suo padre, sua madre e suo fratello. Scivolò silenziosa lungo i folti ciuffi d’erba ai margini del sentiero, come un passero in volo radente. Il suo pugnale trapassò il collo del primo uomo, poi quello del secondo. Entrambi caddero a terra dimenandosi e gorgogliando, il loro sangue insozzò le polle fra le rocce della via e i loro sguardi si rivolsero al cielo invocando entità distanti i cui nomi erano sconosciuti agli elfi. Dilja inspirò profondamente. Inspirò per la prima volta dal giorno precedente. Lasciò che l’aria fredda che permeava la valle le entrasse nei polmoni, portandole messaggi distanti. Non poteva andare via, non ancora.

Raccolse il sangue dei cacciatori con le dita, quattro per mano. Usò il sangue per disegnare spirali sul proprio volto, sulle proprie gambe, sulla propria pancia. Recitò tre preghiere per ogni triscele, così come le avevano insegnato. Diede ai cani una degna sepoltura, chiedendo alle radici di avvolgerne i corpi e nutrirsene fino al bianco delle ossa. Infine, sollevò la porta di casa e la appoggiò delicatamente su quella che ormai era una tomba. La giornata era appena iniziata e nel petto le pulsava il timore di essere ormai l’ultima elfa sull’isola.

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