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C’era Rolando in quella spider. Accartocciato e sanguinante, come un’istrice investita per sbaglio, gettata lì dentro affinché nessuno la vedesse. Era morto già da qualche ora, e con il caldo di quelle giornate l’odore dolciastro della carne cominciava già a diffondersi per l’abitacolo. Avrebbe dovuto rimuovere il tettuccio, ma poi come avrebbe giustificato la cosa? Flora iniziò a temere che suo padre, tornando a casa, potesse recarsi in garage e magari avere voglia di fare un giro con l’auto sportiva. Smise quindi di fissare il muro, dal quale aveva già provveduto a strappare via tutte le foto dell’ormai ex-ragazzo, infilò una felpa e scese al piano inferiore.
«Ehi. – La bloccò una voce. – Finiti i compiti?»
Era sua madre. Che non avrebbe dovuto essere a casa, non così presto. Non erano nemmeno le sei.
«Che ci fai a casa? Non sono nemmeno le sei.» Mormorò.
«Oggi avevo il pomeriggio libero, non ricordi?» No. «Stanno ristrutturando gli uffici, oggi imbiancano tutta l’ala delle risorse finanziarie. Niente lavoro né oggi pomeriggio né domani. Poi mi faranno sapere.»
Morse una mela. Flora si morse un labbro.
«Allora… finiti i compiti?» Domandò di nuovo sua madre. Non era veramente interessata alla cosa. Era più una domanda rituale, priva di significato. Come “ciao come stai” o robe del genere. Sua madre la usava per attaccare discorso. Se era necessario, la ripeteva anche più volte. Flora si sentì abbastanza tranquilla nell’ignorarla di nuovo.
«Scendo a prendere una cosa che ho lasciato in garage.»
«Cosa?»
«Una… felpa. Credo di essermela tolta laggiù, l’ultima volta che ci sono stata.»
«Va bene. – Disse sua madre sgranocchiando un altro pezzo di mela. – Se è da lavare, mettila direttamente in lavatrice.»

Flora le voltò le spalle e scese le scale in gran fretta. La spider era lì. Un alfa-romeo del ’95 nera, che suo padre teneva in grandissima cura. La carrozzeria tirata a lucido rifletteva in modo distorto il suo volto arrossato, la bocca aperta, i capelli spettinati. Flora si fermò a contemplare per qualche secondo i suoi occhi deformati, allungati, disperati. La propria immagine riflessa era inquietante, perché rispecchiava in maniera assolutamente precisa il modo in cui si sentiva in quel momento. Stirata, schiacciata, mostruosa. La spider le scrutava l’interno del cuore. La spider sapeva. Era contro quello sportello che Rolando l’aveva spinta, baciandola con passione. Era su quelle lamiere levigate che aveva strusciato la schiena mentre Rolando le infilava le mani sotto il vestito. Il vetro del lunotto aveva vibrato quando lei aveva gridato “no!” e poi “no!” e poi ancora “no!”. Aveva provato ad aggrapparsi alla plastica laccata dello specchietto retrovisore quando le ginocchia le avevano ceduto, a causa del ceffone che il ragazzo le aveva tirato sui denti. L’orecchio le aveva fischiato così intensamente che non era riuscita a comprendere nemmeno una parola di quello che Rolando le sbraitava contro, mentre le puntava il dito contro. Aveva appoggiato la testa allo pneumatico anteriore della spider, trascinandosi leggermente verso la ruota, quando Rolando l’aveva afferrata per una caviglia, tirandole sù la gonna. Sullo sportello doveva essere comparso il riflesso di Rolando, in quel momento. Il suo volto colmo di rabbia per aver subito un rifiuto, che forse nell’immagine era angelico e sorridente, benché avvolto nel nero. Flora aveva dato un calcio in faccia Rolando, e quello era ruzzolato all’indietro. La nuca aveva battuto contro il perno di una morsa, sul tavolo da lavoro di suo padre. Il perno era penetrato nella carne morbida alla base del collo. Rolando aveva emesso qualche gemito, il suo corpo si era agitato debolmente per qualche minuto, poi aveva iniziato a raffreddarsi.

Dapprima Flora era scappata in camera sua. Poi in bagno, dove si era ripulita del proprio sangue della faccia, e aveva coperto alla bell’e meglio il gonfiore sullo zigomo. Quindi aveva raccolto tutto il suo coraggio ed era tornata nel garage. Aveva trascinato il corpo di Rolando via dal tavolo colmo di attrezzi, e non sapendo cosa farci l’aveva issato nel bagagliaio della spider. Aveva chiuso la macchina. Rimesso le chiavi al loro posto. Poi era svenuta. Dieci minuti dopo era rinvenuta. Aveva pulito il sangue a terra e sulla morsa, gettato gli stracci nel cassonetto a due passi da casa, ed era corsa in camera. Lì -così almeno sperava- avrebbe elaborato un buon piano per disfarsi del corpo del suo ragazzo. O meglio, ex-ragazzo. E non perché lui era morto, ma perché un ceffone in faccia per lei rappresentava una rottura, un motivo sufficiente per chiudere qualsiasi storia, quale che fosse il livello di coinvolgimento emotivo. Quello stronzo aveva tentato di stuprarla, e lei non si sentiva affatto in colpa per come erano andate le cose. Ma le conseguenze di quel gesto andavano ben oltre il rimorso e le crisi di coscienza, Flora rischiava di passare i suoi anni migliori in un riformatorio. Non ne aveva intenzione. Adesso che era di nuovo in garage si guardò attorno. Avrebbe potuto incendiare la macchina, ma il sistema anti-incendio avrebbe vanificato lo sforzo, e suo padre l’avrebbe ammazzata di botte. Avrebbe potuto prendere la spider, guidare fino al bosco più vicino, e lì abbandonare il corpo di Rolando. Tutto perfetto, se non fosse per il fatto che Flora aveva sedici anni e quindi non aveva la patente e tantomeno l’autorizzazione per prendere la macchina sportiva di suo padre. Avrebbe potuto aprire la porta del garage e poi spingere fuori la macchina… e poi sperare che qualcuno la rubasse. Ma che idea scema. Sua madre se ne sarebbe accorta. E comunque…

«Che stai facendo?» Le domandò sua madre, comparendole alle spalle.
Flora sobbalzò e finì con le spalle contro lo sportello della spider.
«Ho ucciso il mio ragazzo. – Disse. – Voleva violentarmi, mi ha picchiata.»
Sua madre si limitò a spalancare gli occhi.
«Come, scusa?»
«Il corpo è nel bagagliaio. Ho paura che papà si arrabbi, se lo scopre.»
Lasciò che sua madre le passasse davanti, e giungesse infine al bagagliaio. Lo aprì, lo richiuse.
«Chi è?» Chiese.
«Rolando. Quarta D. Stavamo insieme da due mesi e tre giorni.»
La mano di sua madre, appoggiata sul cofano della spider, iniziò ad accarezzarne la lamiera nervosamente. Era come se volesse lucidarla, ma la mano stessa lasciava il suo alone sulla verniciatura nera. Lo sguardo della donna si perse per qualche minuto nei riflessi. La spider sapeva, aveva ascoltato e aveva visto tutto. Adesso custodiva il segreto di sua figlia, come una madre premurosa, all’interno del proprio corpo, sigillato, lontano da sguardi indiscreti.
«Sali in macchina.» Le disse sua madre.
«Dove andiamo?»
«Al fiume, a disfarci del corpo. E poi mi darai una mano a ripulire il macello di sangue che resterà nel bagagliaio prima che torni tuo padre, o Dio solo sa quanto si incazzerà.»

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