Rogarth, il vecchio Zonjiroi (Patreon)
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Una volta, il padre di Akhbish lo aveva pregato di sedersi assieme a lui attorno a uno scoppiettante falò di legna odorosa. Il fuoco emanava un fumo bianco e leggero che si sollevava alto in cielo in assenza di vento, e l’odore di resina e di foglie era forte in prossimità del cerchio di pietre. Rogarth, il padre di Akbish, stava sorseggiando una tazza di buon infuso alle erbe del primo rilucere, e parlava con voce bassa e tono suadente, come se stesse raccontando un’antica leggenda.
«La via del nomade è spietata, figliolo. Come vorrei che fosse qui anche tua madre, lei avrebbe trovato le parole giuste… ma forse è un bene che non ci sia. Saremmo stati entrambi vecchi e inutili, e ci saremmo commossi uno sulla spalla dell’altra, a metà del discorso.»
«Che succede, papà?» Domando Akhbish con occhi lucidi, intrecciando le dita con nervosismo.
«Succede… la vita. Ecco cosa succede. Gli anni passano, gli Zonjiroy invecchiano velocemente, tu sei già grande ed è il momento di accompagnarci al campo dei gladuli. Una pietra eretta aspetta che tu incida su di essa il mio nome.»
«Non dire così, papà. – lo sgridò Akhbish – Tu sei ancora forte e le tue mani stringono ancora le redini del bilungo con forza e decisione. Il tempo di cui parli è ancora distante. Concediti un’altra primavera, dammi la possibilità di organizzare il viaggio con maggiore consapevolezza e con più cura. Domani, in città, venderemo le tele che abbiamo recuperato all’equatore, poi torneremo nella valle delle pigne per il raduno delle pulci. Allora ne riparleremo.»
La testa di Akhbish ciondolò alla luce tremolante del fuoco. Rogarth deglutì rumorosamente e lanciò un ceppo nella brace, quindi in silenzio riattizzò la fiamma. «Non ci sarà un’altro raduno delle pulci, per me, figliolo. Lo speziale ha soppesato il mio ventre ed esaminato le mie lacrime. Un ulcera maligna. Mi restano un paio di lune, prima dei crampi. Voglio morire guardando il cielo stellato, non il fondo di un secchio di latta colmo del mio vomito.»
Akhbish si voltò indietro verso il bilungo sul quale era costruita la loro casa: un ammasso di tavole di legno tenute insieme da corde robuste e reti di canapa. Barili, scale e sacchi di iuta penzolavano dal groppone e dalle lunghe gambe dell’altissima creatura che i due usavano per spostarsi in lungo e in largo attraverso le pianure. Era la vita del nomade, la vita di un Zonjiroi. Presto Akhbish avrebbe ereditato le redini da suo padre, e poi le avrebbe lasciate nelle mani di suo figlio. Così succede. La vita, ecco di cosa si trattava.
«Allora ti prometto che avrai la stele più altra di tutto il campo, papà.» Mormorò Akhbish, tirando su con il naso. «Oh, no! – si lamentò il vecchio – Non osare erigere una roccia con il mio nome che sia più alta di quella di tua madre! Non me lo perdonerebbe mai! Mi condanneresti all’inferno eterno!» Entrambi risero per qualche secondo, poi entrambe le risate si asciugarono al calore del fuoco. Akhbish avrebbe voluto dare dei nipoti a suo padre, ma aveva iniziato a cercare moglie troppo tardi. Probabilmente al prossimo raduno si sarebbe fatto avanti con Crilussa, stringendo in mano semi di lino come era tradizione, e baciandola sotto un pero smeriglio. Ma suo padre non ci sarebbe stato.
«Non essere triste, figliolo. È la vita, questo succede.»
«Non ero triste, papà. Pensavo a Crilussa, momenti felici. Avrei voluto che i tuoi occhi fossero testimoni anche di questo futuro.»
«Va bene così. Ho già tanto con cui aggiornare tua madre.» Bofonchiò tra i baffi. Poi puntò il dito verso suo figlio, sorridendo mesto: «Ma ti prego, se prenderete il nostro Bilungo per la tratta nuziale, dagli una ripulita! Crilussa non si merita di trovare tutto quel sudiciume sul fondo dell’acquaio. Chiaro?»
Akhbish annuì. «Certo papà.»
Rogarth lo accarezzò dolcemente, come faceva quando Akhbish ancora non aveva né barba né pancione prominente. Fu un gesto inusuale per lui, troppo tenero per un vecchio Zonjiroi nomade delle pianure. Ma se lo perdonò. Se lo concesse. Così succede, nella vita.