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«Hai sbarrato la porta?»
Erik non rispose immediatamente, continuò a respirare. Non aveva più l’età né il fisico per corse come quella. Sentiva il cuore battere così forte che i colpi gli rimbombavano nel petto. Sentiva i battiti nel collo, nella tempia, sulla punta delle dita. Lasciò cadere a terra la sbarra di ferro, lorda di sangue.
«Erik, hai sbarrato la porta?» Lo incalzò Darren. Erik calò la pesante barra metallica sulla porta di alluminio, poi cercò le chiavi in una tasca dell’impermeabile. Si rese conto di averle nella tasca dei pantaloni, le recuperò e le infilò nella toppa. Ad ogni giro la serratura della porta blindata emetteva un rumore gracchiante, stridulo, come se nessuno l’avesse mai usata da anni. Era così.

«Ti hanno attaccato sul sentiero? – Domandò il vecchio Alan. – Sei ferito?»
«Non è ferito, – Rispose per lui Darren. – come avrebbero potuto morderlo? Indossa un maglione di lana e una incerata, e non ci sono strappi o… lacerazioni. Sta bene. Dammi una mano con questo mobile.»
Erik era stato aggredito mentre risaliva sul sentiero. Erano un gruppo di quattro malati, impazziti per l’emorragia cerebrale. Se fossero riusciti a gettarlo a terra l’avrebbero finito a suon di calci, pugni e morsi. I morsi erano la cosa più pericolosa, perché la saliva trasmetteva il virus. A volte bastava che un malato ti respirasse troppo vicino, ed era andata. Tre giorni di febbre crescente, poi il cervello friggeva.

«Erik, abbiamo bisogno di una mano, qui.»
Alan era troppo vecchio, Darren non ce la faceva a spostare l’armadio davanti alla finestra. Erik lasciò le chiavi nella serratura e andò ad aiutarli. La finestra del piano terra era rotta da tempo, la maniglia era vecchia quanto il faro, con gli anni si era arrugginita non riusciva più a spingere le aste, quindi era impossibile chiuderla. Se ne erano sempre fregati, così come avevano fatto i custodi precedenti. Le strumentazioni scientifiche, le brande e le postazioni di lavoro erano tutte ai piani superiori: il piano terra veniva usato come una sorta di ripostiglio. Durante le mareggiate, la finestra rotta non era esposta alle onde e non c’era pericolo che la stanza si allagasse. Talvolta, quando una tempesta infuriava e il vento era forte, la pioggia entrava e si formava una grossa pozza d’acqua sul pavimento di cemento. Uno strato di limo e muschio era cresciuto sul muro, e a terra restavano visibili i segni dell’ultimo allagamento: un perimetro irregolare di polvere scusa che indicava chiaramente dove non bisognava lasciare le cose se non si voleva correre il rischio di ritrovarle zuppe. In quel momento, Erik e Darren stavano spostando un pesante armadio di metallo pieno di faldoni di carta proprio all’interno del perimetro, a ridosso del muro, davanti alla finestra.
«Questo non fermerà l’acqua.» Fece notare Erik, strofinandosi le mani.
«Meglio di niente. – Gli rispose Darren. – Dovendo tenere la porta serrata, rischiamo che la stanza si allaghi. E se la stanza si allaga, uscire di qui sarà il vero problema. Le finestre sono troppo strette, io non ci passo. E comunque dal primo piano è un salto di almeno cinque metri, direttamente sugli scogli.»
Erik annuì.

Un potente tonfo fece sobbalzare tutti e tre i custodi del faro.
«Cosa è stato?» Gemette Alan.
«Un malato, probabilmente.» Gli rispose Erik.
«Ti hanno seguito?» Chiese Darren, avvicinandosi alla porta. Dall’altro lato provenivano lamenti, vociare indistinto, gemiti piagnucolosi. Un altro tonfo. Un infetto, o forse due, stavano cercando di entrare colpendo la porta. I loro tentativi erano troppo goffi, e la porta era blindata. Non c’era pericolo che la sfondassero.
«Erano un gruppo di quattro… forse cinque persone… malati… – Iniziò a raccontare Erik, sollevando le spalle, – sono spuntati da alcune rocce vicino al parcheggio, dietro l’area di servizio abbandonata. Dapprima ho iniziato a correre, ma poi mi sono reso conto di aver lasciato il pick-up aperto e sono tornato indietro…»
Erik scosse la testa platealmente. L’effetto sarebbe stato sicuramente più scenico, se non fosse stato calvo. Comunque, per assicurarsi che gli altri due avessero capito il suo stato d’animo, piantò un pugno sull’intonaco al lato della porta.
«Sei tornato indietro perché non avevi chiuso la portiera?»
«Nella fretta… e comunque c’era l’impermeabile, sul sedile… l’avevo dimenticato.»
«Erik, ti rendi conto che tra venti minuti al massimo il tuo pick-up sarà spazzato via da un’onda alta 27 piedi? Hai visto i dati? Ha ascoltato il bollettino?»
«Sì… sì…» Balbettava Erik, ciondolando il capo.
«Tra venti minuti non esisterà più Crane Bay, Seagull Port, i campi di mais, il centro commerciale, l’autostrada costiera e forse nemmeno le fattorie dei Mulligan.»
«Dai, Darren… calmati… era in preda al panico, la situazione non è affatto piacevole.»
Cercò di intervenire Alan. Darren sbuffò e salì al piano di sopra di gran passo. Lo sentirono rovistare tra i cartoni, poi bofonchiò qualcosa che a Erik sembrò un “sedici minuti”.

«Elene e i bambini sono in salvo?» Chiese Alan, continuando inutilmente ad ammucchiare la ferraglia che giaceva agli angoli della stanza.
«Davrebbero… li ho avvertiti in tempo ma, sai com’è, forse il panico, il traffico…»
«Stai tranquillo. Con l’emergenza sanitaria in giro non c’è nessuno. Non in macchina, almeno. Se sono riusciti ad allontanarsi dal Crane Bay e prendere la provinciale, il maremoto non li raggiungerà.»
Altri tonfi provenivano dall’altro lato della porta. I malati che avevano seguito Erik erano ben più di quattro o cinque. A giudicare dal rumore che facevano, sembravano una dozzina, forse di più. Cozzavano con i corpi e con le teste contro la porta metallica, facendola risuonare. Anche se non c’era pericolo che entrassero, il susseguirsi di colpi era snervante.
«Vorrei che smettessero.» Mormorò Erik.
«Smetteranno. – Lo rincuorò il vecchio Alan tra un colpo di tosse e una pacca sulla spalla. – Fra un quarto d’ora il Signore cancellerà i tormenti di questi poveri disgraziati con un unico, gigantesco, colpo di spugna.»
«L’ospedale… la zona rossa… dici che non sopravviverà nessuno?»
«Figliolo… io ho fatto il custode di questo faro per quarant’anni, finché non è arrivato Darren a darmi il cambio. Ho visto tantissime mareggiate, tempeste imponenti, fulmini e tuoni il cui boato faceva tremare le mura. E ho visto onde altissime infrangersi sulla scogliera e contro le pareti di roccia a sud delle tenute di Margareth e di Philip Duvall. Ma una roba come quella che è prevista oggi…»
Alan si mosse per raggiungere le scale, con passo incerto. Erik lo aiutò.
«…ho letto anche io i dati che abbiamo ricevuto dalla marina. Dicono che l’onda si infrangerà su di noi a 60 miglia orarie. L’ospedale e la zona rossa sono sulla costa, a poche miglia a sud di qui… e neanche a mezzo miglio dal mare. Fidati di me: nessuno che venga colpito da un muro d’acqua che viaggia a 60 miglia orarie poi si rialza in piedi.»

Sebbene il discorso di Alan fosse intriso di enfasi epica, Erik non poteva che concordare. Il virus era insorto presso l’ospedale di Crane Bay poche settimane fa, e da allora si era diffuso in tutta la zona. L’area era stata circoscritta dal servizio sanitario nazionale, e c’erano controlli strettissimi. O almeno, c’erano stati. Poi la situazione era degenerata, alcuni malati erano fuggiti dall’ospedale e avevano contagiato altre persone. La faccenda si era fatta seria, uscire di casa era pericoloso e le autorità avevano imposto un rigido coprifuoco. E poi il terremoto, a largo della costa. Terribile, troppo vicino. La notizia era stata data tempestivamente, ma il preavviso era comunque troppo a ridosso dell’arrivo dell’onda anomala. Dal barricarsi in casa al darsi alla fuga non c’era che un’ora scarsa di tempo. Poi “il Signore” avrebbe fatto piazza pulita, come diceva Alan.

«Sta arrivando!» Gridò Darren, dal piano superiore. Erik e Alan stavano già salendo. Da quella stretta fessura verticale che erano abituati a chiamare finestra, si intravedeva già il la cresta dell’onda in arrivo. Il mare si era ritirato per quasi cinquanta metri, e continuava a indietreggiare, lasciando dietro di se una distesa di gli scogli ricoperti di alghe brune. Il cielo grigio si congiungeva all’orizzonte con il mare più scuro che Erik avesse mai visto, ma proprio lì, all’orizzonte, una linea irregolare e tremolante, che appariva e spariva in continuazione, lasciava presagire l’imponenza del muro d’acqua in arrivo.
«Quella finestra dovrebbe reggere. – Commentò Darren, vedendo che Erik vi si era avvicinato. – È un infisso di alluminio con doppio vetro, e l’apertura è stretta. Anche ai piani superiori abbiamo solo roba di qualità, in quanto a infissi.»
«Il faro non reggerà.» Disse Alan, con voce tremante.
«La lanterna è a venticinque piedi da terra, e ci sono altri dieci piedi di scogliera sul livello medio del mare… forse l’onda non la raggiungerà.»
Erik e Alan si lanciarono uno sguardo timoroso.
«Dobbiamo sperare che il faro regga, che non venga travolto. Sappiamo che può farcela, è una struttura relativamente recente e in buono stato. Nella maggior parte delle simulazioni l’onda non lo abbatte. È per questo che siamo qui, no?»
Gli altri annuirono.
«Il portello per la lanterna è chiuso?»
«Praticamente saldato. – Rispose Alan. – Da lì l’acqua non entrerà.»
«Bene… – Disse Darren sedendosi sulla sua sedia girevole. – Ancora quattro minuti. Qualcuno vuole dire qualcosa?»
Nessuno proferì parola. Un minuto di quei preziosi quattro svanì nel silenzio. Un silenzio sporco, contaminato da gemiti e lamenti, dalle grida e dalla disperazione dei malati che si stavano accalcando contro la porta del faro, al piano inferiore. Un silenzio che si imponeva difficilmente sul fragore dell’oceano che indietreggiava, mentre la cresta dell’onda si faceva via via più alta, più imponente, sfidando le nubi e gli uccelli di mare che strillavano in cielo. Un cellulare squillò, interrompendo quel silenzio che silenzio non era. Tre minuti.
«È Elene…» Disse Erik, e rispose.
Mentre Erik si allontanava, Alan sembrò ricordarsi di qualcosa.
«Posso dire una preghiera?»
«Certo.» Sussurrò Darren, che non voleva disturbare la conversazione di Erik con la ex-moglie. Due minuti.
«Anche se è rivolta ai malati?»
«Ai malati?»
«Alle anime disperate che stanno premendo con tutto il corpo contro la nostra porta. A coloro che stiamo lasciando fuori, sapendo che moriranno ingoiando acqua salata, colpevoli di non essere colpevoli…»
«Sembri quasi averne pena.»
«Ho molta pena per loro. Ma questo è il volere del Signore.»
Darren annuì stancamente. Poi spense il computer, quindi la luce, quindi aprì lo sportello con i contatori e staccò l’intero impianto elettrico. Là sopra, da qualche parte, la luce del faro si spense. Darren in cuor suo sperava di poterla riaccendere subito dopo l’onda. Un minuto.

«Era Elene. – Disse Erik, chiudendo il cellulare e rimettendolo nella tasca dell’incerata. – Mi ha detto che ha raggiunto lo svincolo dell’autostrada, ma che non riesce a passare il casello. È tutto chiuso. Sono lì, in fila, con alcune altre macchine provenienti da Crane Bay e dalle altre zone costiere.»
Alan si abbandonò a diversi colpi di tosse prima di rispondere con un sorriso.
«Ce la faranno. Sono molto distanti dal mare.»
«Lo credo anche io, ma… mi ha detto che lì, al casello, c’è anche un'ambulanza.»
«Un’ambulanza?» Domandò sbigottito Darren.
«Dell’ospedale. Forse qualcuno stava cercando di portare in salvo dei malati ma…»
«Non ora Darren!»
«A terra! Erik, a terra!»

L’onda raggiunse il faro.

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