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Quando Giulio vide l’appartamento per la prima volta, non notò che nella parete con mattoncini rossi a vista ne mancava uno, a circa un metro e mezzo da terra e a due metri dall’angolo con il muro intonacato a sinistra. Era troppo indaffarato a controllare ogni cosa annotata sulla lista che gli aveva lasciato la sua compagna, Candida. Lavatrice, finestra esposta al sole, doccia ampia, impianto elettrico predisposto per il wi-fi, spazio in cucina per il microonde, studio luminoso. La signora dell’agenzia immobiliare gli fece la cortesia di una seconda visita un mese più tardi. Nemmeno allora lo notò, ma in quel caso fu giustificato dal fatto che in quell’angolo della stanza erano accatastati tutti i mobili del vecchio inquilino, che sarebbero stati portati via nelle settimane successive.
Insomma la prima volta che Giulio si rese conto di quel mattone mancante, fu il primo giorno in cui si trasferì nella nuova casa. L’appartamento era vuoto, fatta eccezione per un letto matrimoniale e quanto bastava a rendere vivibili il bagno e la cucina. Chiudendo la porta dell’ingresso, fu sorpreso dall’eco. Sulle pareti del corridoio si notava l’ombra dei quadri che erano stati rimossi. Avrebbe dovuto imbiancare di nuovo le pareti, “rinfrescare” come diceva suo padre. Per questo aveva deciso di trasferirsi a Trieste con così tanto anticipo: ne avrebbe approfittato per qualche lavoretto e per arredare l’appartamento, prima dell’arrivo di Candida. Anche se Candida non avesse dovuto trattenersi a Firenze per un altro mese, non sarebbe stata comunque d’aiuto, con il pancione e tutto il resto. Meglio che restasse a casa dei suoi, dandogli tempo di sistemare un po’ la loro futura casa.

«Chi ha tolto quel mattone?» Esclamò ad alta voce. Le sue parole rimbombarono nello spazio vuoto della stanza, quello che in futuro sarebbe stato il salotto. Al momento era lì che era stato appoggiato il letto matrimoniale, perché nella camera da letto c’era ancora da rimuovere la vecchia carta da parati, in parte scolorita dagli anni. Si guardò attorno come se il mattone mancante potesse essere ancora lì, da qualche parte. Non c’era, ovviamente. Non c’era nemmeno traccia di polvere o di calcinacci, e il resto dei mattoni che componevano il muro erano ancora tutti al proprio posto, ordinatamente sfasati, accatastati con minuzia uno sull’alto, tenuti insieme da un sottile strato di malta finemente ripulito da ogni eccesso e stuccato con perizia. Da quanto tempo mancava, allora, quel mattone? Si chinò quanto bastava per gettare uno sguardo nel buco del muro. L’edificio era abbastanza antico da nascondere intercapedini e doppie pareti, tra una stanza e l’altra. Così sembrava, infatti. C’era uno spazio vuoto oltre la parete di mattoncini rossi, forse poco profondo, ma non era possibile al momento accertarsene: non aveva portato una torcia elettrica, né possedeva nulla che lo potesse aiutare a ispezionare l’oscurità oltre quel tassello mancante. Accese la luce nella stanza, ma l’angolazione e la distanza del lampadario, sul quale tra l’altro era stata lasciata una sola lampadina a tortiglione, non gettava luce all’interno del grosso foro. Per qualche secondo fu tentato di infilarci il braccio, alla ricerca di un fondo, nel tentativo di scoprire dove terminasse il buio, ma ci ripensò velocemente, disgustato dall’idea che le sue dita potessero imbattersi in ragnatele, cacca di topo o blatte morte. Invece, raccolse un pezzo di cartone strappato che doveva essere stato parte di uno degli scatoloni usati dal precedente inquilino per traslocare le sue cose altrove. Lo rigirò agilmente tra le dita e poi lo calcò sul muro, a tappare il buco. Miracolosamente, il cartone restò lì. Il bordo irregolare si era incastrato tra le irregolarità dei mattoni circostanti. Tanto bastava affinché Giulio non notasse più quella fastidiosa apertura, quel quadrato nero e vuoto, il pezzo mancante di un puzzle che altrimenti era stupendo: provava soddisfazione per aver acquistato quella parete a mattoncini, era convinto che una volta arredato, il salotto sarebbe stato di una bellezza invidiabile.

La notte scese veloce. L’autunno era al termine e le giornate erano corte. Quando Giulio tornò dal suo giro di commissioni, la casa era immersa nel buio. Accese la luce in corridoio e appoggiò tutto all’ingresso. Non c’era altro posto dove mettere le cose, per ora. Con la coda dell’occhio, mentre toglieva il cappotto, notò un riflesso inaspettato. Appena un puntino di luce, un riverbero acuto della luce accesa nel corridoio, che attraverso la porta del salotto sfiorava l’angolo del mattone mancante. Il cartone non c’era più. Forse era caduto a terra. E qualcosa in quel buco baluginava sinistramente.
«Cazzo, la torcia.» Mormorò. Avrebbe dovuto comprarla, ma tra le tante cose da fare gli era passato di mente. Scostò per un attimo lo sguardo, rivolgendolo al proprio cellulare: era tardi ormai, i negozi avevano appena tirato giù le saracinesche. Quando rialzò gli occhi, il bagliore non c’era più. Scomparso. Eppure la luce non era cambiata. Di conseguenza, qualsiasi cosa la stesse riflettendo, si era spostata. Un brivido gli corse lungo la schiena, prima che il suo cervello potesse elaborare le prime ipotesi rassicuranti. Una goccia di umidità scivolata via. Il dorso di uno scarafaggio che è corso a nascondersi. Una cosa era certa, non avrebbe controllato.

Dopo aver cenato in modo frugale, Giulio si preparò per dormire. Sapeva che quel mattone mancante l’avrebbe innervosito al punto da non prendere sonno, e non poteva permettersi di gettar via un giorno di lavoro per una sciocchezza del genere. D’altro canto, spostare il letto altrove, nella casa, non era un’ipotesi da prendere in considerazione: avrebbe dovuto smontarlo, trascinare via il materasso a due piazze, e rimontarlo in camera da letto, laddove poi sarebbe stato d’intralcio. Raggiunse quindi l’ingresso, afferrò il trolley nel quale aveva provveduto a portarsi qualche vestito di ricambio per quei giorni, e lo piazzò contro il muro. L’altezza non era sufficiente, quindi impilò sul trolley un paio di buste della spesa, ancora piene di scatole di pasta, pacchi di zucchero, sale e ananas sciroppati. La torre era un po’ instabile, ma arrivava a coprire il buco. In quel modo, non avrebbe corso il pericolo di incapparci inavvertitamente con lo sguardo, durante la notte. Spense la luce, poi tolse i calzini e tirò le gambe sotto il plaid leggero che aveva steso sul letto a mo’ di coperta. Seguì il tonfo improvviso, per quanto prevedibile, del trolley e di tutta la spesa che vi aveva impilato sopra.
«Fanculo.» Sibilò, e serrò gli occhi.

Non sapeva dire quale fosse il motivo per cui si svegliò nel bel mezzo della notte, ma avrebbe giurato che quel buco nel muro vi avesse qualcosa a che fare. La stanza era immobile e silenziosa, non c’era motivo per il quale sarebbe dovuto emergere dal sonno, eppure era sveglio. Gli occhi aperti, a fissare il soffitto. L’ansia gli premeva sul petto. Il respiro gli rimbombava nelle orecchie. Non voleva ruotare la testa, non voleva inclinare lo sguardo, ma sapeva che se non l’avesse fatto, il cuore gli sarebbe esploso. Nell’oscurità udì un rumore insolito, ma ben comprensibile: il rumore della plastica della busta della spesa, che si increspava un poco per volta. Proveniva dal buco, per la precisione dalla sporta della spesa che aveva piazzato in cima al trolley, nel goffo tentativo di occultarlo alla sua vista. Ora la spesa giaceva da qualche parte davanti alla parete a mattoncini, e qualcosa agitava la plastica della busta. Era un rumore lieve, fatto di crepitii che si susseguivano a intervalli irregolari, come un piede o una mano la stesse schiacciando, ma lo facesse con estrema lentezza. Come se qualcosa non volesse essere udito, mentre esce dall’oscurità. Come se sperasse di non aver svegliato nessuno, come se quella busta finita per terra fosse un ostacolo inaspettato. Se non fosse incappata in quella busta, la creatura sarebbe scivolata silenziosamente fino al letto, mentre Giulio era ancora immerso nel sonno.
«Ti è andata male, pezzo di merda!» Gridò Giulio, lasciandosi trasportare dall’onda di adrenalina e sollevandosi a sedere sul letto. Con un gesto rapido della mano si scostò la coperta di dosso e spalancò gli occhi, certo di aver colto in flagrante il mostro che viveva tra le pareti, l’entità fatta di buio sulla quale la signora dell’agenzia immobiliare aveva furbescamente sorvolato. E la vide. Vide una figura torta e magra, ripiegata su se stessa, ossa e pelle malamente illuminati dalla fioca luce della notte che filtrava attraverso le imposte socchiuse. Il volto scattò emettendo rumore di ossa vecchie, e l’unico occhio mostro lo fissò, nero e lucido come una perla contaminata dal male. La creatura aveva quasi scavalcato del tutto la busta di plastica, sulla quale era piegata, curvata in modo innaturale, con i quattro arti sottili distanti l’uno dall’altro, simile nella postura a un ragno nero.
Giulio non gridò, il fiato gli mancò e non ne ebbe il tempo. L’unico rumore che riempì la stanza fino al mattino seguente, fu l’eco fastidiosa di mandibole che masticano.

«E quel mattone? Perché manca?»
Chiese Candida a suo padre. Il vecchio già era di malumore per aver assecondato l’idea assurda della figlia di fare una visita a sorpresa a Giulio, visto che era passato appena un giorno dalla sua partenza. Non trovarlo in casa l’aveva indispettito ulteriormente. Il fatto che Candida avesse aperto un mutuo ventennale per comprare una casa coi buchi nelle pareti era l’ennesima nota negativa della giornata.
«Non l’avevate notato, in precedenza? Non avete visto la casa per ben due volte prima di acquistarla?»
«In realtà io l’ho vista solo una volta. La prima volta avevo dato a Giulio una lista delle cose su cui porre l’attenzione, – Cercò di giustificarsi la ragazza, – e non mi sembrava certo il caso di specificare “non devono esserci buchi nelle pareti”.»
Suo padre sbuffò.
«Dove sarà andato?»
«A fare altre commissioni. – Rispose Candida. – Ad esempio a comprare un mattone da infilare in quel buco. Non sarebbe una cattiva idea occuparsene subito, è un po’ inquietante.»
«Comunque io devo tornare indietro subito, se voglio essere a casa prima che faccia buio.» Le ricordò il padre.
«Non preoccuparti, papà. Te l’ho già detto. Stanotte resterò a dormire qui, poi domani vedrò di trovare una soluzione coi treni, per tornare anche io.»
Il vecchio inspirò profondamente, poi abbracciò sua figlia.
«Mandami un messaggino quando torna Giulio. Fatemi sapere che va tutto bene, non mi sembra prudente lasciarti qui da sola… oltretutto… insomma, nelle tue condizioni!»
«Ma che c’entra adesso il fatto che sono incinta, papà? Non devo mica partorire oggi, sono al settimo mese! Dai, non farti troppi problemi, io me la cavo… mi sono portata le mie cose e Giulio starà per tornare. – Gli rispose Candida, sorridendo. Poi si accarezzò il pancione, e lanciò romanticamente uno sguardo alle stanze vuote. – Cosa vuoi che mi accada? Questa ormai è casa mia… casa nostra. Non vede l’ora di darci il benvenuto.»

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